fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

sabato 29 dicembre 2012

Bambù


Dieci anni fa abbiamo cominciato a piantare cespi di bambù. Attualmente abbiamo dieci
varietà che vanno dal nano di 40cm, all'edulis che può arrivare fino a 23mt di
altezza.
Non abbiamo ragionato in termini di investimento economico ma, in effetti, da
quest'anno potremmo iniziare a riprodurli e a venderli perché, quando ci era toccato
comprarli, un vaso con un colmo spelacchiato di edulis l'avevamo pagato 50euro.




E' un sempreverde e d'inverno la sua massa verde sembra voler negare la stagione.
Indifferente alle basse temperature e alla neve - si corica sotto il peso senza
spezzarsi ed appena può si libera e si raddrizza da solo - con il suo impressionante
apparato radicale è un sostegno ideale per terreni franosi e minacciati dalle acque.








Queste doti le avevamo immaginate, invece ci ha sorpreso il rapporto che si è creato
tra il bambù e gli animali. Una delle caprette nane, Viola, ereditata da un contadino
della borgata ed arrivata da noi in pessime condizioni (grassa, era stata alimentata
più a biscotti che a fieno, puzzava in modo indescrivibile, zoppicava dall'artrite,
aveva una mastite ad una mammella ed era infertile)
lasciata libera di scegliere aveva
scoperto il bambù che le altre capre ignoravano,
pur pascolandoci liberamente in mezzo
tutti i giorni. Viola si era cibata di bambù per mesi
e aveva riacquistato la salute
sufficiente per fare ancora una bellissima figlia.
Inutile dire che da quel momento il
bambù è diventato patrimonio di tutto il gregge,
che lo usa evidentemente in senso
salutistico per bilanciare un pascolo troppo ricco, depurarsi e ripulirsi l'intestino.


Anche i cavalli si sono dimostrati estimatori del bambù ed ormai c'è un bel mucchio di
colmi di fianco al loro recinto. Il bambù, che è semplicemente una graminacea perenne,
un erba più grossa delle altre, è una fonte di quasi pura fibra che può avere un
effetto vermifugo ed aiutare la digestione particolarmente delicata dei cavalli.



Una precauzione: valutate la sua capacità invasiva e scegliete la varietà dell'altezza
adatta. Un nostro amico era particolarmente orgoglioso del suo impianto di una varietà
vellutata che cresceva rigoglioso con altezze sui 10mt. Ma quando i bambù hanno
raggiunto la strada, si è accorto che le sue radici erano in grado di alzare
l'asfalto... L'unica soluzione, a quel punto, è stato l'espianto con una draga delle
radici che, come si vede in foto, hanno circa il diametro dei culmi che vi crescono
sopra.

 

Esiste una varietà che non fa "correre" l'apparato radicale ed evita quindi i problemi
di invasione, ma ce l'hanno regalata quest'anno e non l'abbiamo dunque ancora visto
crescere.

 

Anche sull'uso alimentare non abbiamo ancora fatto esperimenti. La prossima primavera
proveremo a raccogliere i germogli della varietà edulis, che ormai superano i 5cm di
diametro, e ad usarli in cucina. Vi faremo sapere.


martedì 25 dicembre 2012

Del valore taumaturgico della bestemmia e della nudità




La bestemmia e l'oscenità, esempi estremi di soggettività,
vengono sanzionate dall'oggettività della legge.
E' vero, siamo in democrazia, ma quella che io intendo come pubblica piazza
non lo sarà mai veramente finchè s'imporrà questo galateo.
Rivendichiamo sempre queste "verità facili",
usiamole perlomeno come esercizio di pulizia mentale e di sincerità interiore.
Bestemmiamo e denudiamoci... finché ce ne sarà bisogno.
Perché, se anche non ci toccano personalmente per costrizione mentale ricevuta,
sono comunque una verifica doverosa della salute del nostro villaggio.
Bestemmiamo e denudiamoci per ricordare,
se anche non c'è un dio a guardarci le pudenda,
che i vestiti e le religioni sono una rigidezza per tutti,
un vilipendio all'umana specie,
ed una precisa offensiva indifferenza per la nostra persona!

Tante buone cose a tutti.

giovedì 20 dicembre 2012

Esperienze di riscaldamento a legna


Dopo un lustro di esperienze sul riscaldamento di casa con una stufa a legna, ci
sentiamo di trarre qualche indicazione che può interessare chi deve progettarsi una
nuova casa o chi ne deve ristrutturare una esistente. Una parte di queste indicazioni
sono state inserite nella progettazione dell'edificio (vedi il post Esperienze di
autocostruzione: casa in terra cruda) come la posizione centrale della stufa e del
camino.



Abbiamo realizzato il camino con mattoni di coltello, ottenendo una canna fumaria in
mattoni pieni in cui abbiamo inserito un tubo in materiale cementizio 30x20cm e, nel
primo tratto sopra la stufa, un tubo in acciaio da 20cm.



Abbiamo apprezzato fin dal primo inverno la capacità di questa canna fumaria, con i
suoi 5mq di superficie, di riscaldare le camere da letto del primo piano. Anche al
mattino, con la stufa ormai spenta, la canna fumaria resta tiepida.
L'unico limite era la stanza degli ospiti che, più distante dalla canna fumaria,
risultava più fredda. Abbiamo trovato la soluzione a questo problema realizzando un
condotto di legno di 20x15cm che recupera l'aria molto calda che c'è nella parte alta
del bagno, dovuta al retro della stufa che vi si affaccia.

Con un semplice sportello, comandato da un cordino in camera
da letto, apriamo o chiudiamo il condotto in legno. Se ci sono
ospiti apriamo lo sportello e l'aria calda del bagno, senza bisogno
di ventole, finisce in camera e l'effetto si sente in pochi minuti.
La chiusura del condotto ci consente invece di tenere la stanza
più fredda e risparmiare legname.
Un altro fattore si è rivelato interessante: il piccolo boiler elettrico
è stato posizionato in alto nel bagno ma appena dietro la stufa e,
anche da spento, recupera passivamente il calore di tutta la giornata
offrendoci dell'acqua tiepida che risulta molto gradevole ad esempio
per lavare i piatti. Di fatto accendiamo il boiler esclusivamente per
la doccia (la cui frequenza può ridursi notevolmente in ragione di fattori quali la vita campestre e l'alimentazione, ma ne parleremo in un prossimo post).
Inutile dire che il nostro bagno super caldo è invidiato da tutti: diverse volte
abbiamo assistito alla scena di qualche coppia in visita, magari vicini della borgata
con villoni da 300mq in laterizio e cemento, che dopo dieci minuti seduti nella nostra
cucina ci hanno messo in imbarazzo con la moglie che dice al marito "ma caro, come mai
in questa casa c'è un bel tepore e da noi fa freddo?"




Ancora qualche precisazione sulle canne fumarie. "Le case si incendiano dal tetto", e
la congiunzione tra canna fumaria e tetto deve essere eseguita con particolare cura.
Le canne fumarie possono incendiarsi (anzi, l'incendio con l'apposita pastiglietta che
si compra dal ferramenta è un metodo per pulirle), ma se il tetto è in legno non deve
esserci legno infilato troppo vicino alla canna fumaria. Altra precisazione è di
evitare il gasbeton nella realizzazione di una canna fumaria, perché le alte
temperature di un incendio lo sbriciolano.
Una precauzione è quella di mettere qualcosa contro l'intrusione degli uccelli (mio
padre aveva a suo tempo salvato un paio di allocchi finiti nella canna fumaria). Una
rete non funziona perché la fuliggine finisce per intasarla, ed una stufa che non
sfoga può anche ammazzarti. Per impedire agli uccelli di passare bastano due bacchette
di ferro ben distanziate.

Augurandoci un inverno mite, buone feste a tutti.

venerdì 14 dicembre 2012

Il mio amico etero




Io non sono competitivo perché il maschile lo trovo più interessante di così,
mentre lui evita la competizione... perché il maschile non gli interessa!
E non è la stessa cosa.
Un maschio etero può essere succube delle richieste femminili fino al punto da
impersonarne il soggetto e femminilizzarsi a sua volta, nei comportamenti e nei pensieri.
Così come le donne possono subire il fascino della cazzoneria al punto da rifiutare
il proprio corpo per indossarla meglio.
Le parti sono virtualmente rispettate, ma il totale è zero: gli uomini non imparano
a far figli, né le donne dimostrano maggior ponderatezza e senso di responsabilità nel
loro attivismo.
La postmodernità è transgenere perché ricuce infertilmente la ferita dei soggetti
con relazioni sessualmente invertite in un non-tessuto sociale individualistico.

domenica 9 dicembre 2012

Lattofermentazione


E' in questa stagione che conviene farsi i crauti.
Quest'anno abbiamo avuto una buona produzione di cavoli. Ne avevamo piantati 150
riuscendo ad indovinare l'epoca giusta per l'impianto, la fine di luglio. Sono venuti
tutti e di ottima pezzatura, nessun problema a venderli, ma sei chili ce li siamo
tenuti per l'inverno. Conservati tramite il processo di lattofermentazione, i crauti
rappresentano un ottimo integratore per l'inverno. Una forchettata al giorno è
sufficiente a migliorare le condizioni della flora batterica e della digestione,
offrendo al contempo una copertura di vitamine e di piccole sostanze preziose per il
nostro organismo.
La fermentazione è una pratica millenaria, può essere usata per quasi tutte le verdure
e rappresenta un ottima tecnica per utilizzare gli eventuali esuberi di una produzione
orticola. Si possono fare dei misti ed usare tagli diversi o addirittura verdure
intere, si possono usare diverse spezie per insaporire a piacere. Qui vi presentiamo
la ricetta base per i crauti.


 

 


Affettate i cavoli, salateli (circa al 1%, un cucchiaio di sale ogni chilo di cavolo)
e pigiateli nel contenitore, eliminando il più possibile le bolle d'aria fino a
sommergerli nel loro stesso succo. A questo punto è solo questione di tempi e
temperature. Due giorni a 20-22°C, due o tre settimane a 15-18°C e poi a 0-10°C per
continuare la maturazione e per la conservazione (a questo punto si possono
invasettare e mettere in frigo).
L'utilizzo di un apposito contenitore in terra è una bella comodità ma non è
essenziale. Il coperchio fa sifone nell'acqua del doppio bordo e permette l'accumulo
dell'anidride carbonica che impedisce lo sviluppo di muffe e marciumi superficiali.
Senza questo strumento si può usare qualunque altro contenitore ma bisognerà ripulire
quotidianamente il coperchio, la superficie del liquido ed i pesi, meglio ancora
facendoli bollire. Anche l'affettatoio non è essenziale, ma affettarsi a mano sul
tagliere sei chili di cavoli può essere già una bella noia...

mercoledì 5 dicembre 2012

Giudizio e valutazione


Nel proporre la condivisione culturale degli strumenti per l'autonomia (gestire la
propria salute, l'alimentazione, le forme sociali) ci si trova troppo spesso di fronte
ad una reazione contrappositiva che denuncia la fondamentale paura
dell'individualismo: la paura di essere giudicati.
Ed è vero che l'affermare qualcosa, in un certo senso, vuol dire negare qualcos'altro.
Così, ad esempio, la ricerca di un'alimentazione corretta comporta inevitabilmente
anche la valutazione realistica delle scelte alimentari scorrette: zucchero, latte,
alcool, caffé, etc. sono la chimica sbagliata per il nostro corpo, ed assumere queste
sostanze è e deve tornare ad essere considerato un evidente atto di autolesionismo che
discende e comporta un assetto psicologico antivitale. Punto! Questa è la
valutazione "sociale" da fare, il patrimonio di un contesto realmente alternativo che
possa dare una misura all'individuo e ai suoi comportamenti. Poi c'è da fare i conti
dentro di sé con le ragioni di quell'autolesionismo, ma questo è pertinenza del
singolo, dei suoi tempi di maturazione e delle sue personali capacità di reggere un
certo livello di consapevolezza. La valutazione realistica di criteri alimentari
validi per tutti non corrisponde ad un giudizio sulla persona e sulla sua maturità.
Ciascuno è quello che è, ovviamente, ed il prenderlo in quanto tale è la prima mossa
irrinunciabile di un sano realismo.
La valutazione esprime interesse per qualcuno che è già con noi. E' il giudizio invece
quell'atto preventivo, estremo ed irrevocabile per cui si sceglie con chi avere a che
fare, chi va bene e chi no "in quanto tale". La selezione: rifiuto dell'altro o
accettazione.
Se queste definizioni sono corrette possiamo allora cercare di attribuire alla diversa
esperienza di genere questi atteggiamenti.
Il giudizio è delle donne. E' il femminile che decide l'opportunità di una gravidanza,
è il femminile che può rifiutare la tetta o minacciare l'abbandono. Quelle sono le
scelte irrevocabili. Il giudizio rappresenta un'opzione estrema da usarsi nei casi
limite. Nelle società tribali per esempio, oltre che nel controllo delle nascite, lo
possiamo immaginare usato come massimo strumento di dissuasione di atti criminosi (la
matriarca ti maledice e tu te ne vai senza appello), come decisione di vita o di morte
degli anziani di fronte ad una carestia, come rottura dei rapporti diplomatici e
dichiarazione di guerra.
Normalmente però si valuta, dando per scontata e salda un'accettazione di base. Anzi,
quanto più è sincera l'accettazione, tanto più profonda e magari dolorosa può
permettersi d'essere la critica. Maschile è la valutazione realistica dell'amico: è
proprio perché ti accetto, perché ti prendo per quello che sei, che ho interesse a
valutare bene "cosa" sei. La valutazione sprona a migliorare lavorando sui propri
limiti, porta efficacia e consapevolezza all'agire maschile dove invece la paura di un
giudizio potrebbe essere solo lo stimolo di un'inconsulta cazzoneria, deleteria ma
usabile strumentalmente per i soliti fini di comodità femminile.
E difatti le cose possono non andare nel verso giusto. Il femminile può abusare della
sua dotazione giudicante: ricorrere al giudizio troppo spesso, o minacciarlo ad ogni
occasione, depotenzia ovviamente quest'arma in mano alle donne, ma soprattutto produce
individui o viziati o insicuri e dunque sempre "a disposizione" di aspettative altrui.
Vivere sotto la minaccia costante d'essere giudicati, ed arrivare a ritenerlo normale,
è all'origine della fondamentale solitudine dell'individualismo: qualcuno che ritiene
d'essersi liberato dall'altrui giudizio... solo perché l'ha fatto suo, costruendosi
un'immagine di sé cui rispondere, inconsapevolmente, per il resto dei suoi giorni.
Le donne patiscono il pettegolezzo perché, in effetti, dalle altre donne sono abituate
a ricevere giudizi, ed interagiscono agli estremi della fusionalità (l'amica del
cuore) o della dominanza e sottomissione, così costruendo complicate quanto gratuite
strutture gerarchiche in ogni loro luogo di ritrovo.
Gli uomini invece possono socializzarsi "solo se" liberi dalla paura del giudizio,
altrimenti questa li spinge all'individualismo. E l'individualismo non può aprirsi
perché, se anche non è questione di soldi, uno sta sempre sulla difensiva. "Perché non
vuoi far parte del gruppo? Cosa pensi di avere di così prezioso da difendere?"
L'individualista ha da difendere l'immagine che si è fatto di se stesso, dalle
critiche e dal realismo cui la promiscuità del branco l'esporrebbe!
Potremmo dire che l'eterosessualità, la famiglia e la società nascano quando la
passione delle donne si spegne nell'opportunismo: "ti amo perché sei adeguato, perché
sai fare l'uomo e mi porti i soldi a casa". Viceversa sono io donna che sono fuori da
ogni sorta di critica proprio perché facendo coppia con lui mi sono liberata dal peso
a dal controllo della gerarchia femminile. L'altro non può essere di riferimento ad
una donna che ragiona nei termini: se mi critichi, se non mi apprezzi è perché sei
"cattivo", e se sei cattivo io posso sempre abbandonarti! Mentre forse è lì quella
particolare gratificazione che frutta la vita matrimoniale: è l'apprezzamento che
riceve dalla sua donna che dà all'eterosessuale quel senso di "beata" inconcretezza
adolescenziale ed irresponsabilità che fa della famiglia il primo fattore globalizzato
di inquinamento.
Ma la paura del giudizio non si supera negandolo, perché così facendo ci precludiamo
anche ogni possibilità di una ragionevole "valutazione". E questa è forse la
dimensione postmoderna dove la vita urbanizzata, che aveva permesso di scappare dal
giudizio della gente del paese, solleva da ogni critica l'individuo che ora è chiamato
ad "autoaccettarsi": vado bene così, vado bene così... come un mantra, fino ad
illudersi che sia così davvero e fino ad imparare a portare con noncuranza i propri
limiti, anche se sono incipienti come una pancia gonfia.
Il giudizio è delle donne, impariamo a restituirglielo; la coppia e la famiglia sono
solo il modo di trovare reciproca copertura di limiti, vizi e illusioni. Solo
prendendone coscienza possiamo cercare seriamente un'alternativa e chiedere alle
nostre relazioni quella complicità creativa che oggi manca e che è basata
sull'accettazione realistica dell'altro.
Questo maschile può allora ritrovare tutta la sua capacità di profonda accettazione
dell'altro, ma solo a a patto di poter "Valutare", e senza fare sconti, e col miglior
grado di realismo di cui siamo capaci, la propria e l'altrui condizione.

venerdì 30 novembre 2012

Che genere di potere...


Tutti i giorni porto a spasso i cani e mi diverto a veder funzionare le regole
d'ingaggio della compagnia. Davanti il maschio, poi la parte preziosa del branco, cioè
le femmine e me. Arrivati ad un incrocio il maschio ci pensa un attimo e poi prende per
una parte ma, appena anche noi arriviamo al bivio... lancia uno sguardo e capisce.
Capisce se la sua valutazione delle intenzioni femminili è stata corretta, o se deve
fare dietro front e correre a rimettersi alla testa della nuova direzione.


<<La fondazione della Confederazione Irochese mantenne il sistema dei clan, la cui
appartenenza si basava sulla matrilinearità, già in uso nelle cinque tribù.
Periodicamente la Lega teneva un consiglio delle tribù, costituito da cinquanta capi
chiamati sachem, che venivano nominati dalle donne (matrone) di quei clan in cui queste
funzioni erano ereditarie, così come ereditari erano i nomi attribuiti ai capi. Il
consiglio non decideva a maggioranza, ma doveva discutere e mediare finché non si
raggiungesse l'unanimità, successivamente le decisioni prese dovevano ottenere il
consenso della popolazione. Dunque, sebbene la Lega avesse un governo composto
esclusivamente da uomini, ciascun membro di quel governo era responsabile delle sue
azioni verso le donne della propria famiglia. Non vi è dubbio che il potere detenuto
dalle donne trovava le sue basi negli schemi di sussistenza degli irochesi, che
vivevano in villaggi fortificati e in cui, sebbene da parte degli uomini fossero
praticate sia la caccia che la pesca, la fonte principale di sussistenza era costituita
dalla coltivazione di diverse varietà di mais, fagioli e zucche (soprannominati dagli
irochesi le “tre sorelle”), che era mansione delle donne, le quali inoltre erano le
proprietarie dei terreni e delle case.>>
http://it.wikipedia.org/wiki/Irochesi

<<La lega confederativa Irochese era riuscita a rompere la barriera di diffidenza che
esisteva tra le varie tribù, amalgamando numerosi clan le cui origini erano simili,
creando un concilio federale, rispettando allo stesso tempo un'autonomia locale. La
responsabilità di mantenere l'ordine pubblico apparteneva alle varie tribù e ai villaggi
individuali. La terra apparteneva alla comunità, come pure il sopravanzo dei prodotti
che era diviso con i vicini bisognosi e le capanne appartenevano alla famiglia della
linea materna.
Infatti la società Irochese, anche se in definitiva era una società maschile, era
basata e organizzata su di un sistema matrilineo. Erano le madri che selezionavano le
future mogli dei figli; era la matrona del villaggio che selezionava il Sachem (il capo
del villaggio che apparteneva ad una delle cinquanta famiglie aventi il diritto di
eredità a tale titolo) in consultazione con le donne della medesima parentela e con
quelle appartenenti ad altri gruppi, ed era la matrona a sanzionare la sua
destituzione. Questa influenza delle donne era forse nata dal fatto che erano loro ad
accudire ai lavori domestici e agricoli, mentre gli uomini erano spesso lontano dai
villaggi a pescare, a caccia o a far guerra.>>
Libera riduzione e traduzione di Giorgio Zanetti dal volume
"Indians of Canada" di Diamond Jenness (1886-1969); U.o.T.; 7th ed. – 1977


A differenza di questi esempi - dove il mandante femminile viene espresso chiaramente,
addirittura istituzionalizzato, e la struttura sociale può dunque essere espressa in
termini di genere in una formula del tipo: il femminile decide l'obiettivo ed il
maschile agisce per raggiungerlo - la mafia nasconde "l'ordine della madre" dietro il
sangue degli uomini e può essere descritta come: la strutturazione occulta delle
richieste femminili perpetuata attraverso il sacrificio dei maschi. (A dimostrazione di
questo valga il successo addirittura internazionale del metodo di contrasto alla mafia
escogitato dai giudici Falcone e Borsellino: la novità di questo metodo è che il
sequestro dei beni va a colpire non tanto l'apparato maschile-militare della mafia
ma direttamente il mandante femminile-patrimoniale).
I primi due casi rappresentano strutture sociali che discendono dalla diversa
fisiologia di maschi e femmine. Con la mafia ci facciamo idea di cosa può succedere
quando il familismo diventa totalizzante.
La democrazia che conosciamo, fondata sulla cittadinanza individuale, ha il limite
dell'indifferenza di genere. Potrebbe essere un contenitore neutro dove fare tanti
esperimenti sociali e dar corsa all'immaginazione, e invece rappresenta solo la
situazione in cui i portati dei due sessi continuano ad essere volti al fottere
(richiesta di oggetti di consumo e produzioni inquinanti) ma in compenso i mandanti
sono completamente disincarnati e nessuno imputabile!



giovedì 22 novembre 2012

Insignorilimento


Una villetta cintata, una telecamera, un Suv per proteggere i propri cari nel selvaggio
confronto stradale...
Una cascina nei boschi, dei cani liberi, l'ombra della provincia che ti permette ancora
di circolare con una vecchia macchina puzzolente con cui non puoi più entrare in
città...
Il territorio torna a popolarsi e nel flusso di migranti si trovano specie molto
diverse. Per qualcuno è solo un trasloco nei quartieri residenziali di una città che si
allarga, per altri si tratta di inventarsi l'organigramma di un nuovo ecovillaggio.
Entrambi rivendicano l'autonomia di una zona di pertinenza personale, un posto dove
essere liberi di decidere per sé. Alcuni se lo comprano per un buon piazzamento
nell'arena liberista, gli altri vorrebbero vederne riconosciuto un senso di pubblica
utilità e  ricevere magari qualche incentivo. Ma si rivendica l'autonomia per fare
cosa?



Ho visto gente di sinistra inalberarsi contro lo stato che gli ingiungeva di abbattere
la tettoia abusiva, offesi quasi d'esser considerati al pari dei peggior speculatori
del nostro belpaese... ma allora l'attività edile fa parte della libera espressione
individuale?, da rivendicare come si rivendica ad esempio il sacrosanto diritto di
coltivarsi la marjuana per uso personale?, spiegatemi! Ma anche a destra le idee non sono
ben chiare: il richiamo ad una vita sana diventa la ricerca di un nuovo edonismo,
l'ecologia non per la salute del mondo ma per l'individuo, a suon di  prodotti
biologici e slowfood, beautyfarm e personal trainer...
A destra l'insignorilimento si è giocato sul piano materiale, sulla proprietà da
allargare e conservare, la sicurezza del mattone. A sinistra si è invece preferito
investire nell'internazionalismo della cultura, creando tante nuove opportunità di
impiego per tutti 'sti figli "che abbiamo fatto studiare". I limiti per i primi sono di
trovarsi alla fine schiavi della proprietà, prigionieri in casa; per i secondi di perdere ogni senso
critico per star dietro al principio che tutto ciò che puzza di cultura va bene!
Attenzione, perché il senso di queste tendenze è chiaramente antidemocratico. Lo
possiamo trovare perfettamente espresso nella pubblicità con l'uso tutto recente, la
maleducazione civica, di fare spot che "ironizzano" sulle tasse promettendo ad esempio
"lo sconto dell'iva". Come lo troviamo nel costume più generale dove, tra "giustizia sportiva" e
"primarie elettorali", la gente non sa più distinguere le istituzioni dall'iniziativa privata.




Il rischio antidemocratico, complice una crisi globale che ci riporta ad un piano
economico interno, è forse quello di cedere un po' sul fronte dell'imperialismo
per tornare però a rivolgere la fottitura all'interno del corpo sociale con revival
di piccole aristocrazie e mafie locali.
La crisi è destabilizzante per tutti: un patrimonio famigliare faticosamente accumulato
di padre in figlio può venir bruciato come niente da un nipotino troppo viziato; così
come quando cominciano a scarseggiare i soldi forse si smette di spendere per cinema,
dischi e viaggi.
Ma la crisi economica non è sufficiente a cambiare la filosofia di fondo. Gli italiani
dimostrano un pericoloso disinteresse per la loro democrazia, un rifiuto che sa di
insoddisfazione ed autolesionismo. La Storia della Fottitura è fatta dei conti ancora
da pagare, e quando i nodi vengono al pettine forse nessuno lo può impedire, possiamo
solo prepararci al peggio correndo anche noi ad allestire il nostro piccolo "castello"...
con le forme di autonomia ed i modelli alternativi al fottere che sapremo inventarci.


venerdì 16 novembre 2012

Gestione dei boschi


Nell'acquisizione dei due ettari di terreno per la nostra cascina ci siamo trovati a
gestire un ettaro di bosco ceduo in riva.
Il bosco presentava 40 querce d'alto fusto ed un troppo fitto sottobosco di nocciolo,
impraticabile ed asfittico per l'umidità. Non c'era alcuna vegetazione al suolo e
sembrava del tutto disertato dai volatili. Unica traccia un sentiero da cinghiali, un
cunicolo alto 60 cm tra la ramaglia.
Il nostro primo intervento è stato ripulire tutto dai noccioli e dalle acacie,
preservando invece carpini e frassini di qualsiasi dimensione. La pulizia è stata
rifatta per 4 o 5 anni per tirar via tutti i ributti di entrambi, poi il residuale è
stato lasciato vegetare.
Sono invece morte da sole una ventina di querce, nel corso degli anni, seccate o cadute
per il vento. Colpite per più anni successivi da una grossa infestazione di vermi
verdi, quelli che invadono anche i meli, e quindi defoliate a volte anche per due volte
nella stessa estate, si sono probabilmente indebolite o anche solo sbilanciate nella
crescita. Anche il castagno è stato lasciato o è stato lasciato pollonare anche se
sempre canceroso, ma su questi terreni purtroppo il frutto non ha il gusto che
dovrebbe.
Nel frattempo i rovi hanno ovviamente invaso le tante zone rimaste scoperte e, dopo
aver provato per qualche anno a frenarne la vitalità con falcetto e decespugliatore,
abbiamo imparato a lasciarli sfogare: in tre o quattro anni il rovo fa la sua fiammata
e poi si esaurisce da solo, la funzione cicatrizzante delle piastrine nel sangue,
lasciando un posto arricchito per successive complessità.
Il tentativo di condizionare il bosco con piantini di quercia rilevati dai terreni
circostanti è risultato fallimentare (pur con tutte le cure nel trapianto hanno
attecchito meno di due su dieci) confermando l'idea che sia preferibile passare dal
seme: nel tempo perso a trapiantare poche piante si possono invece interrare centinaia
di semi con risultati sicuramente migliori.
Questo lavoro di accudimento e pulizia ha dato i suoi frutti, a cominciare dal
ripagarci dal costo del terreno e dell'attrezzatura. Per fare due conti: ci siamo
scaldati tutti gli inverni (per una stima di 800 euro/anno) e dalla segheria sono
uscite tavole da falegnameria per un valore di 12mila euro; a fronte di un investimento
in attrezzatura consistente in trattore 60cv usato 3000 euro, carriola usata da 35q.li
2500 euro, spaccalegna verticale nuova 1300 euro, sega da trattore nuova 750 euro.

 
 


In sostanza, ora che un bosco nuovo spinge la sua chioma tra le vecchie querce ed il
sottobosco punteggiato di fiori e piante diverse comincia a popolarsi di qualcosa di
vivo... possiamo permetterci due riflessioni sulla gestione silvestre.
Nella gestione del bosco non c'è stata nessuna sedimentazione culturale, la
meccanizzazione ha semplicemente interrotto e sostituito la vecchia pratica, e cioè
l'impegno di lavoratori marginali come vecchi e bambini nella raccolta della ramaglia
secca, di utilizzo del fogliame per l'impaglio della stalla, delle ghiande per i maiali
o, nelle zone a vocazione, delle castagne. Oggi è ben difficile trovare un bosco
praticabile e nella nostra zona mi viene difficile indicare a qualcuno dove andare a
cercare funghi o farsi una passeggiata. I trattori hanno bisogno di spazio per fare
manovra ed è impensabile che qualcuno che ha investito 100 o 200mila euro in
attrezzatura non cerchi di ripagarsela in fretta: ogni inverno il manto boschivo viene
traforato dai lotti dove si fa legna, lotti che dopo venti o trent'anni dall'ultimo
taglio stavano appena faticosamente riavendosi, che vengono nuovamente rasati a zero e
devono ricominciare tutto daccapo infestandosi di rovi noccioli e acacie.
E non è questione neppure di regole da seguire: già esiste la prescrizione di lasciare
"le quinte", cioè una certa percentuale di piante giovani per il ripopolamento, ma da
un lato semplicemente non viene rispettata perché nessun preposto controlla, oppure chi
la segue non se ne chiede il senso e seleziona inevitabilmente piante inadatte: la
questione non è tanto quella di lasciare l'esatta percentuale numerica, quanto quella
di identificare le "madri", le piante in grado di produrre seme e di popolare dunque in
breve tempo le nuove radure aperte.
D'altronde le istituzioni dal dopoguerra ad oggi non hanno offerto esempi di
lungimiranza: le ferrovie hanno sparso per tutta la penisola l'acacia usandola per
impiantare le sue massicciate, mentre la forestale ha promosso con perseveranza il pino
cembro e molti agricoltori negli anni hanno sprecato tempo ed energie per sgomberare i
boschi da querce carpini e frassini ed ogni essenza autoctona per far posto a questa
conifera che, fuori dal suo habitat, è cresciuta male e neppure è usabile da
riscaldamento con la resina che sporca e incendia i camini: boschi silenziosi, senza il
volo di un uccello, a file ordinate come le tombe di un mausoleo...
In sostanza, il condizionamento di un bosco è più un lavoro di pazienza che di potenza,
ma abbiamo anche verificato che è possibile ed economicamente ragionevole. L'ultima
foto dimostra quanto il bosco superficiale sia conseguenza della geologia sottostante:
nello stesso piatto le ghiande piccole sono quelle del nostro bosco, su terreni che
sono un deposito alluvionale pietroso ricoperto da uno strato di argilla eolica, a
confronto con i frutti di un substrato con una componente calcarea.
Prossimamente racconteremo in dettaglio la nostra esperienza sul legno da ardere e da
falegnameria.


domenica 11 novembre 2012

WWOOF lavoro in cambio di ospitalità


Questo post è per ringraziare Russel, Molly, Matthew, Klara, Fiammetta, Giovanni,
Paola, Mariangela, Thomas che questa estate ci hanno aiutato in cascina.
L'iniziativa, che abbiamo sperimentato per la prima volta, ci è sembrata lodevole e
sicuramente la continueremo appena torna la bella stagione.
Il wwoofing è un modo funzionale per scambiare lavoro e ospitalità presso cascine
biologiche in tutto il mondo. L'associazione WWOOF nasce in Inghilterra nel 1971
e garantisce una strutturazione "leggera" per far incontrare gente ed esperienze:
25 euro di tessera, una copertura assicurativa, ed il libero incontro nello spirito di un
reciproco arricchimento tra chi viaggia per imparare e chi cerca un modo ragionevole
di radicarsi sul territorio.

La nostra esperienza pratica è stata l'incontro con il responsabile
locale dell'organizzazione che è venuto una sera a cena da noi
per verificare lo spirito del posto (tra l'altro noi non abbiamo
alcuna certificazione biologica). Poi abbiamo stilato una piccola
presentazione del nostro insediamento (attività, alloggio, alimentazione,
stile di vita) che è stata inserita subito nell'elenco internazionale
e in breve abbiamo cominciato a ricevere le prime richieste.
In sintesi, in tre mesi abbiamo ospitato per periodi di 10-30 giorni nove persone
provenienti da Inghilterra, Canada, Cecoslovacchia, Olanda e, per gli italiani, da
sicilia e lazio.
Dal punto di vista pratico siamo soddisfatti: abbiamo ammucchiato legna per due anni e
nell'orto stiamo ancora raccogliendo la verdura piantata da loro. Certo, è un lavoro
anche organizzare il lavoro altrui, ma alla fine ognuno ha trovato modo di applicarsi
utilmente e, speriamo, di portarsi a casa qualcosa. Per parte nostra gli abbiamo fatto
vedere un po'di tutto coinvolgendoli in attività e lavori molto diversi e cercando di
passare onestamente le nostre conoscenze in merito (in una cascina tocca sapersi fare
da mangiare come aggiustare un motore).
Dal punto di vista umano ci siamo riempiti di compagnia, e proprio in quel momento
dell'anno in cui un contadino può cominciare a sentirsi un po' fesso a "stare lì" con
la zappa in mano quando tutti vanno in ferie! Empaticamente il rapporto che si può
instaurare mi è sembrato pulitamente aperto. Sintonia con alcuni e magari distanza con
altri ma comunque sempre al riparo di un patto di utilità reciproca e di conoscenza che
può contemplare anche la critica e la libertà di lasciarsi se proprio non ci si trova:
non c'è contratto e l'intesa è da costruire giorno per giorno.
Non c'è stato spostamento di soldi (l'olandese era decisamente contento di essersi
fatto un mese in Italia con i 40 euro del viaggio in pulmann) e può essere un modo per
tanti giovani disoccupati di cominciare a sperimentare delle cose concrete e cercare di
acquisire elementi di autonomia.
E' una versione ragionevole di turismo ed è un bel respiro per chi rischia di
provincializzarsi sul territorio: contatti internazionali, ganci per poter viaggiare a
nostra volta, esercizio di quelle lingue studiate a scuola e mai applicate...
Fa comunque parte dell'esperimento di una nuova gestione del tempo, delle energie e
delle ambizioni. E' un altro modo di socializzare capacità ed informazioni le più
diverse, anche al di là dell'aspetto lavorativo.
In sostanza, è un piccolo "premio" per l'insediamento territoriale, un plus valore di
socialità: loro vengono... perché noi siamo qui!
Fatelo anche voi... procuratevi una cascina o, nell'attesa, un biglietto del treno!


Convegno contadino


Ieri sera ho partecipato a Torino ad un convegno sulla realtà dell'agricoltura non
industriale (http://coordinamentocontadinopiemontese.noblogs.org/ )
Ringraziando gli organizzatori per la bella occasione di conoscere altre esperienze
locali di insediamento, agricoltura ed attività legate al territorio, vorrei qui
offrire agli amici che ho incontrato alcuni spunti di riflessione.






Autoproduzione o vendita?

Sono sicuro che persino il più incallito dei raccoglitori, capace di sopravvivere da
solo nel profondo di qualche foresta, apprezza l'offerta delle diverse competenze e
vocazioni che può trovare negli altri del suo gruppo.
L'autoproduzione ha un senso sociale: un gruppo in formazione, nel nostro contesto di
provincia postindustriale, teso quindi a riaquisire quell'autonomia ecologica che è la
cultura del raccoglitore, può permettersi l'onere del cercare e sperimentare tecniche
ragionevoli di autoproduzione solo se è in grado di associare realmente competenze e
vocazioni diverse di più persone.
Banalizzando, non ha senso che ti autoproduci il sapone se sei da solo, corri a ruscare
piuttosto e spera di far stare tutte le tue esigenze nel magro stipendio che riuscirai
a tirar su!
Perché non si riduca ad un semplice hobby l'autoproduzione deve partire dalle cose
essenziali: dall'orto e non dal sapone quindi e, pensando all'agricoltura, sicuramente
dal cereale prima ancora che dall'orto.


Produttività

Mettiamo ora che questa ipotetica neoformazione sociale sia riuscita ad organizzarsi la
completa autoproduzione alimentare e proviamo a valutarla in relazione al tenore di
vita.
Dalle nostre parti si vive con 1000-1500 euro al mese. Consideriamo pure che il vivere
associati riduca le spese a 7-800 euro. Facendo il conto che in 100 euro/mese ci sta
una ragionevole alimentazione a cereali e legumi, la nostra autoproduzione avrà coperto
solo 1/7 delle nostre necessità. Quanto tempo ci ha impegnato? Riusciremmo a farne
sette volte tanto?
Se la risposta è no allora forse vuol dire che il modo di produrre è ancora inadeguato
e/o il nostro stile di vita è troppo oneroso: imperialista o handicappato, per volontà
edonista o per limiti di salute, in ogni caso qualcosa che costa più di quel che
frutta.
Non voglio essere depressivo per chi ci vuole provare, penso solo che forse dovremmo
considerare separatamente i campi: chiedere all'autoproduzione di coprire  le necessità
di base (l'insediamento, la legna per la stufa, il cibo...) e rassegnarci a monetarizzare
il resto "in attesa di tempi migliori".


Territorialismo

Vivere sul territorio e cavarci il proprio sostentamento mi sembra un ragionevole
principio: chi e a fronte di quali giustificazioni dovrebbe ritenersi esentato?
Sacrosanto principio ma sacrificato, purtroppo, su due fronti. Da un lato soffocato da
un mondo contadino che a qualcuno dovrà pur vendere i suoi prodotti, e non può quindi
manifestare ad esempio contro i danni dell'urbanizzazione con slogan del tipo "niente
cibo a chi non si vuol sporcare le mani..."
Dall'altro esaltato da un certo ambiente alternativo che rischia di farne una nuova
immagine di sé, un nuovo "dover essere" del tutto irrealistico rispetto alle effettive
capacità fisiche e psichiche indispensabili a vivere territorializzati.
"Posso parlare di ecologia con chi mi presenta i catastali dei suoi terreni", questo
continua a sembrarmi un ragionevole discrimine per non perdere il contatto con la
realtà. L'acquisto di un pezzo di terra non mi sembra una vile compromissione col
diritto di proprietà, leggetela piuttosto come la tassa necessaria per sottrarre una
porzione di pianeta alla bieca logica mercantile...


Decrescita come despecializzazione

Quand'anche fossimo riusciti a toglierle quel sentore di "etica triste della rinuncia"
di cui ho parlato altrove, la bandiera della decrescita nasconde un altro limite: il
tecnicismo che presumiamo indispensabile per attuarla!
Dipende dall'immagine che ci siamo fatti dell'umano: l'ecologia sarà (forse) una nuova
capacità faticosamente raggiunta dal progresso della specie? oppure sarà semplicemente
il riprendersi da una temporanea perdita di coscienza (la civiltà storica, dal
neolitico ad oggi) ed il ritrovare la forma e la fisiologia cui abbiamo fatto
affidamento nei nostri primi novantamila anni di vita?
Oggi le informazioni tecniche specialistiche in ogni campo tentano di supplire al
deficit cognitivo cui ci ha condotti la civilizzazione, e possono forse aiutarci a
superare l'impasse, ma non sono la soluzione.
L'obiettivo io credo sia quello di riaquisire una complessità interna alle nostre
persone, la salute e la serenità sufficienti a ad operare scelte "istintuali" azzeccate
ed efficienti.
Forse dovremmo smettere di dar valore alla conoscenza in quanto tale, e cominciare a
riferirla al benessere della specie. E' prioritario, per fare un esempio, adottare
quotidianamente il criterio di integrare la dieta con un assortimento di miso, alghe,
ortiche o quant'altro... piuttosto che impararsi a memoria i microelementi di cui
abbiamo bisogno. La biochimica ci ha aiutato ad uscire dal buco culturale in cui ci
eravamo messi ma poi, quando avessimo riaquisito una pratica istintuale, lo
specialismo tornerebbe ad essere secondario ed eventuale.
Così forse l'università e le istituzioni dovrebbero considerare il loro ruolo in un
processo di decrescita. Luogo di ricerca e formazione, certo, anche nel campo delle
nuove tecniche meno invasive che ci servono oggi, ma solo a patto di assumersi
pienamente la responsabilità dei limiti e degli effetti collaterali insiti nel suo
specialismo.
Mi torna sempre in mente un manualetto edagricole anni '70 dove un professorone
sicuramente titolato indicava il cherosene per diserbare i finocchi, o i copertoni di
automobile per crescere meglio l'insalata sotto al sole... E' l'università che deve
spiegarmi come si può arrivare a tanto partendo solo da un po' di bonario
positivismo...


Agricoltura o allevamento?

E da ultimo, purtroppo, la nota dolente sempre all'ordine del giorno negli "incontri
agresti": il confronto tra agricoltori e pastori!
Che senso ha parlare in contesto ecologico di utilizzo del territorio quando non siamo
in grado di valutare criticamente il nostro prodotto?
Che senso ha cercare modi alternativi di produzione e commercializzazione di alimenti
che possono non essere ecologici per l'umano?
Se ci precludiamo questa valutazione ci precludiamo la possibilità di costruire
quell'alternativa culturale dove i nostri prodotti dovrebbero ritornare ad essere
"normali". Perché richiedere una specifica produzione biologica invece di pretendere
semplicemente che ciò che viene chiamato alimento e commercializzato non sia una merda?
Mi sembra che rinunciare al confronto sul portato culturale e materiale di scelte
fondamentali come quella tra agricoltura e pastorizia, abbia solo l'effetto di
depotenziare: depotenziare tutto, l'incisività politica come l'interesse di mercato.
Probabilmente ci converrebbe distinguere tra una logica d'impresa, dove l'attivismo
produttivo ha il limite di non riuscire ad essere critico sul proprio prodotto, ed una
logica di valutazione ed orientamento culturale che ha invece bisogno di allargare lo
sguardo oltre il problema contingente della fattibilità.
Distinguere, ma riconoscendo una fondamentale asimmetria: prima, ovviamente, si cerca
di capire di cosa abbiamo bisogno e poi si trova il modo migliore di produrlo.
Dovremmo avere il coraggio di coniare un nuovo slogan:

Coltiviamo i campi... ma limitiamoci ad allevare noi stessi!

Ciao a tutti

venerdì 2 novembre 2012

Cos'è la filosofia per me


La filosofia è il rispetto per la coerenza dei propri discorsi. E' vero che una parola non è l'oggetto cui dà nome eppure, prima di qualsiasi raffinato discorso sulla validità della rappresentazione è doveroso il banale richiamo alla sincerità dell'interlocutore.
C'è bisogno di un'adultità che non conosciamo, fondata sull'autonomia personale relativa alle proprie capacità ed al proprio stato di salute, che possa stringere un patto alternativo a qualsiasi ideologia o interesse di parte. Questo patto, questo riconoscimento reciproco, non può essere fondato né sul familismo mafioso né sull'impersonalità democratica, che nell'irresponsabilità collettiva partecipa agli stessi danni della peggior delinquenza: decidere democraticamente di essere imperialisti...!
Per fuggire dal rischio di conflitto o di complicità due adulti possono soltanto trovare nella realtà il loro arbitro. Creare un'intesa sul realismo può comporre le forze efficacemente senza rischiare di mettersi assieme per fare la guerra contro qualcun'altro. Poter dare per scontato un presupposto di sincerità moltiplica esponenzialmente le capacità del gruppo o della rete di relazioni.
Ma "l'altro" in questo caso non è una figurazione astratta, è l'altro concreto col quale ci siamo misurati nello sforzo di riconoscere i nostri limiti, le nostre debolezze e dipendenze. L'altro "conosciuto" è partecipe di un'intimità sfacciata quanto può esserlo una relazione dove il desiderio non è costretto nella solita alternativa amico-amante, un'intimità che trasforma il soggettivismo da semplice limite dell'oggettività a preziosa "porzione di realtà", un'intimità garante del grado di consapevolezza personale raggiunta.




E' un patto virile? Un atteggiamento troppo duro, con se stessi e con gli altri? Troppo freddo, come un tentativo di astrazione? No, forse noi la vediamo così, noi figli del postmoderno, ma a vederla dall'altra parte, da parte della forma e della vitalità dell'ancestrale, questo è solo un incipit: la verifica della propria onestà intellettuale, la ricerca di eventuali compromissioni col privilegio e, in sostanza, la constatazione dei nostri limiti sono solo un presupposto di adultità. Il bello viene dopo: la vita, la soddisfazione dei bisogni e dei sensi, la ricerca di una maggiore consapevolezza. Qui sì è l'esercizio di quella spontaneità che tutti vorremmo avere, l'espressione della specificità personale, la complessità dell'intuito... ma tutto questo non ha bisogno di parole per viversi!
Qui ed ora, invece, il contesto dell'individualismo contemporaneo ha bisogno di critica, di battere il naso e di piangere. Non è colpa mia se la piena partecipazione alla vita, il coinvolgimento vitale che non conosce le rigidezze dell'ideologia, per i figli della civiltà è purtroppo solo un obiettivo. Avere pietà di noi stessi, in questo caso, non significa chiudere gli occhi sulla cruda realtà del nostro handicap di umanità, ma provare a sostenerne consapevolmente il peso per riuscire a scorgere un futuro, forse, ancora possibile.

domenica 28 ottobre 2012

Dispensare il cibo


Dare da mangiare ad un branco di cani è un'esperienza interessante, i miei sono quattro
e, con le tre cavalle, cinque capre ed indefinite carpe del laghetto davanti a casa...
mi fanno sentire referenziato. Oltre, ovviamente, a decidere cosa dargli, anche solo il
dispensare il cibo è di per sé una faccenda complessa. Ti devi ricordare per ciascuno
se ha mangiato e quanto la volta precedente, stare a vedere se mangia e con quale
appetito. Se lasciano qualcosa magari ritirarlo sapendo l'indole bulimica di alcuni.
Qualcun'altro è invece in grado di fermarsi e ti lascia magari due fusilli in fondo al
piatto.
Anche la competizione è complessa, se gli animali sono sereni, e non lascia alcuno
senza cibo ma redistribuisce in base alla fame. Qualcuno può finire prima ed andare a
fare la posta al piatto del vicino "dai che sei lento, se non hai ancora finito è
perché non hai fame, dai, lascialo a me...", e l'altro "beh, magari è vero" e si
scosta. Qualcun'altro può inventarsi di fare la corte, per un istante, e rubare
impietoso un pezzo di pane approfittando dell'attimo di distrazione della vittima...



Ma sto divagando, quel che voglio dire è che la pratica di alimentare qualcuno è un
esperienza formativa ed un esercizio di equilibrio che si dovrebbe richiedere a
qualunque futura madre, come a qualunque adulto.
Nella pratica abituale, invece, la cosa più comune è vedere quella sollecitudine
materna ed inopportuna, quello sprone a senso unico al solo aspetto del mangiare:
ancora, di più! Come se l'istinto di conservazione non fosse lì apposta o come se,
realisticamente per le comuni condizioni di salute, temessimo di vederlo affievolirsi!
C'è ovviamente una dialettica, da riconoscere e rispettare, tra l'abbondanza e la
carestia. C'è la sazietà ma c'è anche l'appetito e la fame.
Ecco il primo dei danni del buonismo femminile (e femminile anche se esercitato da un
uomo): la sazietà è comoda, "un bambino con la pancia piena sta buono" è il primo
pensiero che si offre alla stupidità del genitore. Il primo dei danni nel senso che una
generazione "brucia" alla successiva l'esperienza dell'autopercezione, costringendola
nei soliti binari di un'inconsapevole alienazione.
Di genitori ce n'è tanti, non è possibile che nessuno si accorga che tra il trauma
della guerra (eh, ha visto la fame...) ed il vezzo quotidiano di scegliere
nell'abbondanza del supermercato, forse possiamo cercare un equilibrio?
Un giorno la mia mano è generosa e vedo la serenità dell'abbondanza, un altro è parca
ed apprezzo la tensione sana che resta, "l'appetito di vivere". Non è cattiveria il non
dare, è solo l'esercizio consapevole di un aspetto dialettico della realtà.

venerdì 26 ottobre 2012

Fascismo atomico


La più normale delle obiezioni al nucleare - nucleare uguale energia cattiva - è la più
scontata ma è debole e fuorviante: non è che col petrolio stavamo facendo di meglio.
La questione mi sembra essere invece il fatto di dare per scontato che i danni non
vengano risarciti.



La morte per contaminazione radioattiva è ambigua ed elusiva. L'Italia è stata invasa nel 1986
dalla nube di Chernobyl, oggi possiamo contare le vittime solo facendo dotte stime sugli
aumenti dell'incidenza di certe patologie, come il cancro alla tiroide, e sono stime dell'ordine di
migliaia di casi, che però rimangono senza volto: era il mio cancro o il tuo... quello di Chernobyl?
E allora chi paga? I russi? I mafiosi che controllano quelle centrali? Un fondo
internazionale finanziato dalle bollette energetiche dei vari stati?
La filosofia contemporanea l'ha risolta con l'eleganza di una scaramanzia: tutti la
usiamo... chi si brucia non si lamenti!
Ecco, questa è l'essenza del fascismo: non solo giocare alla fottitura, ma voler
imporre il gioco a tutti! E' quel sentirsi dalla parte del progresso che sembra dare
l'autorizzazione: io sono dalla parte del progresso, e il progresso un giorno salverà
anche quelli che oggi vengono danneggiati. In base a questo criterio l'america, negli
anni '50, arrivò addirittura al punto da sperimentare l'energia nucleare contro se
stessa, sui suoi stessi abitanti!
C'è solo un modo di essere contro il nucleare: la riduzione dei consumi. Perché sono
proprio i nostri consumi a renderci complici del nucleare. Attualmente le "nostre"
centrali nucleari sono solo un pelo più in là del confine con la Francia e, calcolando
che i venti tendenzialmente tirano da ovest verso est, è come averlo in casa!
Certo, come italiani abbiamo il diritto di chiedere ad ogni novello filosofo francese
non la sua opinione sull'essere, ma la sua opinione sul nucleare. Ma potremo sganciarci
realmente dalla complicità solo dominando i nostri consumi (il mostro che c'è in noi).
E bisogna proprio parlare di "mostro" perché vi sarete accorti, sicuramente, della
straordinaria "potenza" del nucleare: se ne stava già riparlando, in Italia, alla
faccia del referendum dell'87. E se per questa volta ancora siamo stati salvati, non
dobbiamo ringraziare gli strumenti della democrazia... ma solo il provvidenziale botto
di Fukushima!
Questa "strana potenza" del nucleare, insomma, viene da una nostra intima contraddizione:
da una parte ci può anche fare schifo lo strumento, ma dall'altra è proprio la nostra debolezza
che ci rende voraci di energia.

giovedì 18 ottobre 2012

La morte è antimoderna


Questo delizioso piccolo racconto giapponese ci ricorda come anche la morte possa
essere culturalizzata. La raffinatezza nipponica tratteggia una vecchina zelante, quasi
eccitata di fronte al nuovo compito che l'età le riserva. La vediamo sistemare le
ultime cose con gli altri e con se stessa e poi, sulla strada dei ricordi della sua
esistenza, partire serena per il suo ultimo pellegrinaggio, offrendosi alla morte come
alla più alta delle responsabilità nei confronti della vita.



La raffinatezza, nel caso della tradizione giapponese, è stata il canonizzare una serie
di comportamenti consoni ad un'esperienza vissuta naturalmente, rispettata nella sua
fisiologia: il proprio farsi da parte fa posto alla vita, e se ne può scoprire il
desiderio solo in ragione del compimento, nel bene o nel male, delle tappe precedenti.
Le è difatti affiancata, moralmente nel racconto, la vicenda tribolata di un vecchio
suo coetaneo, decisamente restio alla medesima richiesta sociale e, alla fine,
tragicamente succube.
Questo racconto mi sembra didascalico ad illustrare quel momento epocale dove si è
rinunciato, collettivamente, al realismo dei propri corpi per "potenziarsi" nella
prospettiva virtuale della civiltà storica.
Oggi non si regge più la morte, la preistoria ci spaventa proprio per l'incapacità di
immaginare un altro modo di gestire personalmente e socialmente le nostre esistenze.
L'antenato, paradossalmente, ci ricorda la morte mentre dovremmo celebrarne la vitalità
che ci ha generato.
Il rifiuto della morte non è ecologico. Quando la morte ci spaventa nascono le
religioni e l'individualismo, l'arte e la guerra. La vita contemporanea è tutta un
costoso esorcismo: la moderna umanità non vive, "esorcizza la morte"!
Dobbiamo sottrarre la morte all'ontologia della religione e riportarla all'alveo delle
nostre esperienze fisiologiche. Dobbiamo aver cura di svezzare i lattanti, dare ai
bambini l'affetto che meritano, sincerarsi che gli adolescenti facciano tutte le loro
esperienze, richiederci reciprocamente adultità, usare i muscoli e far posto a qualcosa
di vivo, allevarlo...
Sono tutte tappe inderogabili per giungere sazi alla fine della nostra vita.

domenica 14 ottobre 2012

Tortillas


Piatto tradizionale di un po' tutti gli amerindi, le tortillas sono il modo più
ragionevole per alimentarsi quotidianamente di mais. I nostrani "mangiatori di polenta"
conoscono bene la sazietà ma sanno anche che è una sensazione veloce a svanire. Le
tortillas vi stupiranno invece per la corposità e per l'evidenza del gusto.
Rappresentano anche il modo più diretto di utilizzare una piccola produzione "orticola"
di vecchie varietà locali (100mq condotti manualmente dovrebbero darci una ventina di
chili di mais): un altro pezzo di autonomia da macchinari, forni e mulini (anche perché
venti chili di mais sono troppo pochi per farseli macinare). Questa ricetta per le
tortillas consente di utilizzare il cereale integrale evitando i problemi dei prodotti
sfarinati.





Si parte dalla granella secca che va bollita con qualcosa di basico come la calce o,
come in questo caso e per chi ce l'ha, la cenere di legna ("nixtamalizzazione" si
chiama questo procedimento tradizionale che rompe la buccia ed arricchisce il mais
evitando, per chi lo consuma tutti i giorni, malattie da carenze alimentari come la
pellagra degli europei). Cuocete il mais fino a che cominciano ad aprirsi i primi
chicchi (dipende da quanto è secco il mais, io ho usato di cenere setacciata un volume
pari alla granella, gli ho dato una cottura serale che ho poi ripreso il mattino dopo).
A questo punto va sciacquato e schiacciato, ed il tritacarne penso rappresenti una buona
imitazione della macina manuale a pietra che si vede in tanti documentari sulle vite
tribali.
L'impasto va lavorato con un po' d'acqua fino ad ottenere delle palline da schiacciare
in dischi spessi 3-4 mm.
Sulla piastra per pochi minuti, girate e corrette di sale, le tortillas calde
dovrebbero presentare una crosta croccante ed un interno ancora umido che le rende
flessibili. Arrotolate si usano a mo' di cucchiaio a tirare su il resto del pranzo:
provate ad abbinarci la zucca ed una bella pentolata di fagioli neri messicani... e
buon appetito!

sabato 6 ottobre 2012

Esperienze di autocostruzione 1





Con una serie di post abbiamo intenzione di descrivere le problematiche della
realizzazione di un edificio di 40 mq con licenza edilizia per basso fabbricato,
ottenuta recuperando la cubatura di un piccolo edificio precedentemente demolito.
Avremo così la possibilità di confrontare tempi e costi di un edificio realizzato
direttamente dai proprietari in una logica di "lavori in economia" (possibilità
giuridica esistente sul nostro territorio ma di non consueta applicazione che
meriterebbe un'indagine specifica, chi è interessato può cominciare battendo su Google
"lavori in economia edilizia") con i prezzi di mercato di un'analoga costruzione.
L'esperimento può risultare interessante, ad esempio, per chiunque ha la possibilità
di acquistare un rudere in campagna e vuole valutare quanto gli costerebbe un piccolo
ampliamento realizzato con le proprie forze.
Questo edificio è finalizzato ad essere lo spazio sociale, con servizi, cucina e forno
a legna, di un piccolo insediamento in corso di realizzazione. L'edificio avrà una
fondazione in cemento armato, una struttura portante parte in muratura (per cucina e
servizi) e parte in pilastri in legno con tamponamento in terra cruda, struttura del
tetto in legno e copertura in tegole portoghesi.






Realizzazione basamento

Per la realizzazione delle fondazioni è stato scelto l'intervento manuale (pala e
piccone) valutando che il mezzo meccanico che poteva realizzare lo scavo in una
giornata di lavoro (una draga da 30-35 q.li noleggiata per circa 150 euro) sarebbe
stato penalizzante non per il costo in sé del mezzo, ma per le conseguenze sui lavori
successivi: lo scavo con la benna è troppo largo per essere eseguito "in trincea",
dove quindi è la terra a fare da cassero, e ci avrebbe costretto ad una seria e ben
più onerosa casseratura. L'intervento della draga avrebbe inoltre comportato un
livellamento del terreno che avrebbe reso dunque indispensabili altri interventi di
riempimento e compattazione con camionate di materiale adatto, ad esempio "riciclato".

Materiale

Sabbione: ne sono andati 6 mc e col trasporto ci è costato 280 euro
Cemento: per ottenere un 250 kg/mc ne sono stati usati 60 sacchi da 25 kg per una
spesa di circa 200 euro
Ferro: per le travi perimetrali ne sono stati usati 220 kg (per 0,70 = 150 euro) e
sulla soletta è stata posta una rete zincata da 2 mm, maglia 40x40, costo 50 euro
Laterizi: 9 mq di mattoni forati necessari per creare l'appoggio dei tavelloni

Elenco operazioni

Tracciamento
Pulizia dello strato superficiale
Realizzazione in trincea con pala e piccone dello scavo di fondazione
Getto variabile in altezza di magrone per sottofondazione
Tracciamento delle quote altimetriche col metodo del tubo trasparente (riempito con
acqua permette di stabilire con la massima precisione la quota da raggiungere col
finito)
Casseratura leggera (assi da cantiere da 12 cm e picchetti 7x5)
Realizzazione manuale (taglio e piegatura) delle staffe diametro 8 mm e posa dei ferri
dritti diametro 12 mm per la realizzazione dell'armatura nei casseri
Riempimento con cemento mescolato con betoniera e trasportato a carrette
Dopo alcuni giorni scasseratura dei casseri interni delle travi e realizzazione dei
muretti in mattoni per il vespaio
Posa dei tavelloni sui muretti(realizzazione vespaio h.media 30 cm).
Posa della rete sui tavelloni con adeguato spessoramento
Getto della soletta






Questo in progetto è un basso fabbricato, ma sarà coibentato ed attrezzato come una
casa vera. Per ora abbiamo realizzato le fondazioni con 1000 euro di materiali e 220
ore di lavoro.
Il basamento è l'unico intervento in cemento armato previsto dal progetto. Nella
realizzazione si è fatta particolare attenzione a che lo scavo della fondazione
raggiungesse lo strato affidabile, in questo caso di pietrisco e argilla; che i ferri
si riprendessero di "cinquanta volte il diametro"; che la quantità di cemento
nell'impasto fosse quella prevista. Il cantiere ha la dotazione di una betoniera
chiamata la"barbie" per il colore e l'inconsistenza della lamiera ma che,
sorprendentemente, impasta i suoi 110 litri da tre anni (200 euro).