fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

mercoledì 29 agosto 2012

ILVA di Taranto




Dateci il lavoro, che è la dignità dell'uomo,
se poi muoiono i bambini...
ne faremo degli altri!



sabato 25 agosto 2012

Té bancha


Ho conosciuto il té bancha 16 anni fa: mi è stato presentato come l'unica bevanda che si potesse assumere costantemente senza produrre effetti collaterali.
In queste giornate eccezionalmente calde verifico quotidianamente la capacità dissetante di questo té senza teina: mezzo bicchiere caldo, un gusto leggermente tostato per una pausa in qualunque momento della giornata; dolcificato con un po' di malto a colazione; stuzzicante con una fettina di zenzero fresco... Il té bancha è la bevanda "ordinaria" (in giapponese bancha vuol dire comune) adatta per grandi e bambini.
Il bancha è un té verde che si trova in commercio nelle varietà hojicha (se fatto con foglie) e kukicha (solo rametti), queste come le altre varietà sono prodotte dalla stessa pianta, la camelia japonica, differendo solo l'epoca della raccolta, le parti della pianta o i metodi di lavorazione e fermentazione. Nel nostro caso la mancanza di teina è dovuta alla raccolta di rametti e foglie a fine stagione di piante di tre anni. In qualità di té verde è ricco di antiossidanti, favorisce la digestione, ha un'azione alcalinizzante ed è una buona fonte di ferro calcio e vitamina A. I rametti del kukicha hanno bisogno di un po' più di tempo in infusione oppure di scaldarsi assieme all'acqua, possono inoltre essere riusati per due o tre volte.



Alcune considerazioni sull'assunzione di liquidi:
L'indicazione medica di bere due litri e mezzo di acqua al giorno è una stupidaggine basata sul dimenticarsi il segnale naturale della sete (che normalmente dovrebbe essere funzionale) e sul travisare il problema della depurazione renale (evitare di assumere con l'alimentazione quelle pericolose concentrazioni di sostanze che i reni poi dovranno neutralizzare con tanta acqua), senza parlare di una diretta complicità con l'enorme businnes dell'acqua minerale.
Chi riesce ad organizzarsi un'alimentazione ragionevole s'accorge che il bisogno di liquidi diventa ben poca cosa se paragonato ai carrelli di bottiglie in uscita dal supermercato. Si perde l'abitudine di mettere i bicchieri in tavola, bastando due dita di tè o un caffé d'orzo dopo pranzo. Si perde l'abitudine compulsiva di aprire il frigo ogni cinque minuti per una golata d'acqua, anzi diviene sgradita anche solo l'idea di buttarsi in pancia un bicchiere di roba gelata...
Si ritrova dunque la sete come segnale-sintomo diretto (e praticamente immediato) dell'assunzione di cibi troppo pesanti, conditi o salati.
Come limite dobbiamo ammettere che il té non può essere considerato a "kilometro zero" perché, semplicemente, la camelia japonica non siamo ancora riusciti a farla crescere dalle nostre parti. E non trovando alcuna valida alternativa nostrana che sia fiore, bacca o erba di cui si possa fare lo stesso uso costante senza effetti collaterali, questo è un limite che per ora ci teniamo.


martedì 14 agosto 2012

Maschio e femmina


Un cucciolo gioca, un adulto interdice.
Il cucciolo si ferma, la serietà del tono lo blocca.
Il cucciolo non può sapere l'entità del pericolo, è un divieto acritico, ma lui lo fa suo, così come mangia ciò che gli si porge.
Il limite è interiorizzato, ora potrà fermarsi da solo rispondendo ad un comando interno, un protocollo che s'è dato e che seguirà d'ora in avanti, almeno fino a quando non si sentirà abbastanza sicuro da metterlo in discussione... Ma questa è un'altra storia.
Qui mi interessa notare come quel limite interiorizzato possa rappresentare l'origine fisiologica del simbolico. Un comando, dapprima reale e poi solo più rappresentato dentro di noi, che può incidere sulla nostra forma, sugli atteggiamenti e sulla personalità: in una certa misura, da adulti saremo quegli uomini e quelle donne che avremo avuto attorno crescendo.
Questa è la constatazione per cui alla cultura si può riconoscere un'accezione meno accademica e più apparentata alla natura: dalla fisiologica dipendenza infantile all'adulta indipendenza, ma nell'ordine di una forma prestabilita dalla trasmissione culturale. Così impariamo le strategie del nostro gruppo sociale e, prima ancora, radichiamo le nostre identità di donne e di uomini.



Ora, possiamo chiederci se, alla fine del percorso formativo, quella cultura che ha preso a darci forma sia ancora in grado di interfacciare con la base fisiologica del nostro corpo. La risposta, in merito alla forma individualista contemporanea, sembra essere no!
La critica al moderno individualismo può essere allargata fino ai termini originari di critica all'ordine simbolico vigente, da molti descritto come "patriarcale": un canone di maschilità di un certo tipo, che prevarica il principio femminile ed invade l'intero campo sociale infondendo ognidove il suo segno, tronfio sovente ma anche, all'occorrenza, ammantato di neutralità.
La qualifica di patriarcale e la sua descrizione sono frutto, a mio avviso, di una semplificazione che ha reso un pessimo servizio a tutti, arenando la critica femminista e mistificando l'origine storica della civiltà.
Mi sembra fuorviante ipotizzare un originario matriarcato poi sopraffatto dal principio maschile, così come mi sembra scorretto qualificare il maschile nei termini di gerarchia, competizione, conflittualità, astrattezza.
Alcuni dati mi sembrano confutare nettamente queste concezioni. Da un lato, se indaghiamo le basi fisiologiche, il maschile sembra contrassegnato piuttosto dalla pluralità della truppa che dalla singolarità del capo: gli spermatozoi non "corrono per arrivare primi" bensì collaborano, avanzano come un flusso collettivo e chi non ha abbastanza vitalità non "soccombe" ma semplicemente cede il suo materiale ai vicini, tanto che se il numero di essi è troppo esiguo lo sperma che li veicola non riesce ad essere fecondo. Questa è un'evidenza empirica che, almeno in ambiente scientifico, ha ormai soppiantato il precedente stereotipo.
Parlando poi di stereotipi cade anche l'idea di una certa "amorevolezza" femminile: questo risulta evidente a tutti quelli che frequentano aggregazioni femminili, ma è anche ciò che emerge da un'analisi dei dati sulle violenze domestiche, dove le donne non sono da meno dei loro consorti dimostrando piuttosto un'aggressività incontrollata e maggiormente lesiva (The Anti-Feminist Online Journal).
Ecco dunque il sospetto che, non casualmente, l'ordine simbolico vigente inverta i ruoli, prescrivendo a ciascuno uno stereotipo mutuato dalla base fisiologica dell'altro.
Potremo allora permetterci di guardare con disincanto i nostri corpi e i nostri sessi? Potremo forse stupirci di un maschile di per sé socievole, collaborativo, vitale prima che razionale, coinvolgibile nell'entusiasmo per un obiettivo comune e gerarchico solo all'occorrenza, una virilità che si afferma per il realismo sui propri limiti ed un farsi adulti che limita l'ambito della competizione al confronto generazionale, così fornendo all'intero gruppo quella spinta aggiuntiva che rappresenta lo slancio vitale di ogni forma biologica?
Per questo maschile l'idea di un ordine simbolico è appunto solo astrazione, il rischio di una virilità incerta, la paura di un confronto troppo rimandato. Il maschile sottostà ad un ordine simbolico solo per debolezza, per forma incompiuta. L'edipo non è destino ma solo un incidente!
E' il femminile piuttosto, che dimostra una tensione perenne alla gerarchia, la singolarità dell'ovulo è frutto dell'espulsione di tre altre potenziali individualità (i nuclei polari durante la gametogenesi), ogni donna rappresenta nel gruppo un fattore parcellizzante nel tentativo di drenare risorse dalla sua parte, le condizioni del suo utero sono la sua priorità. Le donne non sono socievoli, patiscono i pettegolezzi, litigano e volentieri si feriscono alle spalle, ma ciononostante un meccanismo fisiologico indica precisamente un destino comune: un qualunque aggregato femminile in poco tempo sincronizza il ciclo mestruale, la comunicazione ormonale vince la dispersione e costringe a trovare delle forme di convivenza.
Ecco allora le basi fisiologiche dell'ordine simbolico della madre: il corpo femminile è sempre mutevole ma prevede anche dei meccanismi per tenere assieme, per fare corpo unico. Una donna crescendo può passare dalla condizione di figlia a quella di madre, e questa ambivalenza è sempre rivisitata, ad ogni ciclo, ad ogni gravidanza. Forse che una leader del gruppo femminile, una donna con più esperienza o magari già in menopausa, non possa servire ed essere cercata proprio per fornire un elemento di continuità, per dare una testa a quel corpo unico?
Una fertilità sincrona da coordinare, l'autocontrollo demografico da gestire in accordo con un gruppo maschile già di per sé coeso ed attivo sul fronte delle risorse, per un complessivo ed armonico inserimento della specie nell'equilibrio ambientale.
Il gruppo di genere è ciò che può dar ragione al desiderio omosessuale, il quale a sua volta non può che rappresentare il limite dell'esperienza di genere: è difficile immaginare un'intimità più che sessuale, ed il desiderio e la disponibilità a quell'intimità sono indispensabili per dare un'articolazione interna ai sessi che dia spazio alla complessità.
Il gruppo di genere è un'assunzione di responsabilità, è il riferimento essenziale di un'adultità complessa che voglia interrompere il circolo vizioso della riproduzione dell'individualismo: tutti dovrebbero potersi sentire genitori ma nessuno dovrebbe poter pensare di rappresentare il tutto per un cucciolo.
Insomma, le nostre identità sessuali non possono che spendersi in forma plurale e associata, ma questi gruppi, per evitare la complicità, devono rispettare la fondamentale asimmetria che gli è costitutiva.
E' bene dunque che l'ordine simbolico torni alla madre parché, in realtà, non è dell'uomo. Agli uomini è sufficiente quest'ammissione, l'ordine simbolico non ci appartiene e se vi cadiamo è solo per debolezza. Mentre le donne, per togliersi dalla complicità "patriarcale", hanno la responsabilità di riportare il loro ordine simbolico ad applicarsi al dato concreto, demografico, ambientale. Altrimenti ecco che il simbolico travalica i propri argini e diventa la matrice per le tante e perniciose tecnologie che la storia ci ha mostrato.
L'ordine simbolico in sostanza, tirato giù dal suo piedistallo, non è poi quella gran cosa che ci debba spaventare. Per gli uni è solo un meccanismo di ripiego, la sgradevole sensazione dei nostri sensi di colpa, il rimosso della nostra inadeguatezza; per le altre è il teatro dove inscenare la quotidiana rappresentazione della propria mutevolezza; per entrambi può essere la misura di un ragionevole riferimento biologico ed ambientale...
E non è difficile immaginare la proposta di un'orizzonte simbolico da tutti condivisibile: piantate un albero che possa diventare secolare al centro del vostro villaggio, e abbiatene cura!

sabato 11 agosto 2012

Dizionario olimpionico


L'Olimpo, il monte dove vivono gli dei. Le olimpiadi come forma religiosa laica?
Considerando l'interesse generato da questo evento, trasversale a ceti e schieramenti politici, si direbbe di sì. Ma sport e religione cosa possono avere in comune?
La prima cosa che mi viene da pensare è che le persone veramente interessate alla religione difficilmente sono interessate allo sport. Non ho pezze d'appoggio a sostegno di questa tesi ma mi viene difficile immaginare qualcuno che esce da messa per fiondarsi ad urlare allo stadio.
Eppure le chiese cattoliche, fino a poco tempo fa, si dotavano tutte di campo da calcio: l'oratorio! Non c'era magari un campionato dove il San Luigi sfidava il San Bernardo, ma comunque un po' di corse dietro al pallone erano proposte come sfogo a chi si era sopportato il catechismo. Può servire a comprendere il fenomeno l'attenzione dedicata dai salesiani, ordine religioso con fini di educazione della gioventù. I salesiani, letto Freud, si sono appropriati di un concetto scientifico di "pulsione"... che cercano di contenere incentivando appunto l'attività sportiva.



Le olimpiadi ci sono ogni cinque anni, ma lo sport conquista nel sociale sempre più spazio. Destra e sinistra condividono la concezione dello sport come formativo dell'adolescente, ed il "portare" il figlio alle infinite attività sportive è ormai il sigillo dell'attività genitoriale per tutti. Penso che, in fondo, sia passata la concezione dei salesiani: il gruppo di adolescenti, indolenti e promisqui nelle loro esperienze, è considerato pericoloso, il corpo non è da condividere socialmente ma da addestrare individualmente!
Se lo sport gestisce il corpo dell'individualista, il tifo è un fenomeno mentale. Condivide col religioso la capacità di "religere", di tenere assieme. Sport e religione condividono l'uso di un linguaggio retorico: un coro da stadio o una preghiera tradiscono la funzione del linguaggio, dal comunicare il nuovo al ripetere sempre lo stesso messaggio. Sport e religione condividono un piano di irrealtà: un dio o una squadra di calcio possono essere oggetto di una passione totale proprio perché non reale, due espressioni di un "amore puro" che tendenzialmente non si mischiano, anche muovendo le stesse leve.
Con "agonismo" possiamo identificare un fenomeno di simulazione, la simulazione della guerra. Ogni "genius loci" si sceglie la tecnica sportiva che più gli aggrada - alle olimpiadi sono tutte rappresentate - e poi... tutti contro tutti, la guerra!
Il termine di "prestazione" parla da solo: verificare chi ce l'ha più lungo! Paranoia prettamente umana: certo anche i cani si confrontano ma se volete, ripensando alle storie dei miei, posso presentarvi Teo che nella sua vita ha vinto tutte le sfide con Uto (è decisamente più grosso), ma non per questo ha mai preteso di fare il capo, riconoscendo in Uto una precisa vocazione ed una visione del mondo più larga della sua. Confronti che servono a tenere alto il livello del branco, non alla conquista del potere. Evidentemente il "primato" rappresenta per l'umana specie una particolare afflizione. Ma se è l'umano nella sua totalità a migliorare faticosamente i suoi primati, l'altro da sé, l'animale, proprio in quanto animale, non riesce probabilmente ad apprezzarci!
Ammetto di essere un po' noioso con tutti i miei post che finiscono allo stesso modo: spiegando le cause del problema evidenziato con una scelta tecnologica di individualismo, l'individualismo su cui si è posizionata la nostra specie da un po' di tempo... Ma che volete daltronde, è il blog della Civiltà del Fottere!

lunedì 6 agosto 2012

Alcool, le Ragioni del Farsi



<< Nel pallido chiarore del mattino vi invito a contemplare una distesa di rovine, il cervello di un alcolista: la sostanza grigia abrasa su vaste superfici corticali; crollata la sostanza bianca; smantellata la corteccia prefrontale, un tempo sede della conoscenza; la distruzione del cervelletto, che va ad aggravare  il disastro cognitivo e motorio che colpisce il cervello; l'ippocampo, dimora della memoria, trasformato in un amnesico campo incolto... >> (Jean-Didier Vincent, Viaggio straordinario al centro del cervello, Salani 2008, p.206)
Questa è la cruda descrizione  degli effetti dell'alcool fornita fornita da un neurologo francese (tra l'altro estimatore del vino!). Se non vi basta date un'occhiata alle enciclopedie divulgative mediche degli anni '70 e avrete descrizioni analoghe mentre, se guardate attualmente su internet, scoprirete tutti i miracolosi effetti positivi del bicchiere a pasto, tener lontano l'infarto etc.
Certo, potete dire che un consumo moderato... etc. etc. Purtroppo ad un uso moderato non può che corrispondere un moderato passar la carta vetrata sulla corteccia cerebrale!
E se a questo danno sommiamo le altre patologie (magari non legate direttamente all'alcool ma conseguenti all'indebolimento che questa intossicazione comporta) e il danno sociale dei 7000 caduti sulle strade italiane (circa la metà sarebbero conseguenza  della guida in stato di ebrezza), abbiamo un panorama complessivo.
Nel tentativo di comprendere un fenomeno così importante nella nostra vita vorrei evidenziare alcuni dati (e tra parentesi non sono una verginella scandalizzata, ma posso vantare un consumo al limite della dipendenza che si è protratto dai 16 ai 24 anni).



Come si inizia...
Dal sito www.famigliacristiana.it  Famiglia News presenta un'anteprima dei risultati di un'indagine dell'osservatorio permanente "Giovani e alcool" della Società Italiana di Medicina dell'adolescenza, condotta su un campione di duemila studenti della scuola media inferiore. La ricerca rivela che il primo incontro con l'alcool "è avvenuto in famiglia per il 58% dei ragazzi a cui si aggiunge un 14% con altri parenti, solo il 18% fa la prima esperienza con gli amici e l'8% non ha mai assunto alcool. Da questi dati possiamo evincere che, di quanti hanno sperimentato l'alcool, l'80% lo ha fatto in famiglia. Sono i dati non di una generica complicità, ma di una vera e propria induzione."

E come si finisce...
"L'alcolismo è la manifestazione più evidente di un equilibrio famigliare "disfunzionale" che provoca sofferenza in tutti i membri della famiglia. I comportamenti dei membri di una famiglia, dov'è presente un alcolista, sono contemporaneamente risposta e causa dell'abuso." (dal sito www.asl.milano.it)

Uso sociale
Per l'uso sociale dell'alcool non abbiamo bisogno di ricerche scientifiche. Il dato generale per la nostra specie è che il 60% dei maschi ed il 30 % delle femmine ne fanno uso. E' evidente a tutti l'uso della sostanza nella socializzazione dell'umano: con una bottiglia tra me e l'altro riesco a costruirmi una dimensione di intesa affettiva.

Alcool e fatica
L'uso di alcolici come compensazione della fatica: bere per ottundere il disagio fisico e mentale delle fatiche eccessive di certi lavori. L'Inghilterra della rivoluzione industriale che moltiplica per 15 il suo consumo di zucchero è un dato analogo. Il bottiglione di vino all'ombra, conforto della fienagione sotto il sole di agosto, potrebbe essere il simbolo di quest'uso, convertito oggi nel rito dell'aperitivo dopo la giornata di "sbattimento" del moderno urbanizzato.

Esperienze di cura
Nel 1952 il dott. Humphrey Osmond cura gli alcolisti dalla loro dipendenza con l'LSD. I risultati sembrano confermare le aspettative: più del 50% dei soggetti che lo sperimentano (una sola assunzione a basso dosaggio) traggono benefici durevoli ma, con la successiva messa al bando della sostanza, questi esperimenti vengono interrotti.
Al merito non ho esperienze personali ma qualche anno fa un conoscente più anziano di me, che aveva fatto esperienze con LSD, mi ha detto: "ho avuto allucinazioni più intense sotto l'effetto dell'eccesso di fatica fisica che con l'LSD. Ciò che mi ha sorpreso non sono stati i cambiamenti percettivi delle poche ore di effetto della sostanza, quanto uno stato mentale di "indifferenza affettiva" perdurante nei due o tre giorni successivi".
Forse in questo senso si può comprendere anche come alla particolare tolleranza riservata all'alcool corrisponda l'ostracismo riservato alla marijuana.

La collettività
Lo Stato, che ha come principale fonte di spesa l'organizzazione della sanità e dell'assistenza pubblica, ha anche, nelle tasse sull'alcool, una delle sue entrate più consistenti.

Tutte queste accezioni mi sembrano accomunate da una "convergenza fenomenologica", un minimo comun denominatore: l'affetto.
L'alcool è il "surrogato affettivo" previsto dalla nostra strutturazione sociale. 
Se lo scopo dell'introduzione di questa sostanza, nella cultura della nostra specie dai tempi del neolitico, è di surrogare l'affetto, si può capire come sia stata funzionale a tutte le strutturazioni rigide che storicamente abbiamo praticato: la monogamia, la famiglia, lo stato e, in definitiva, l'individualismo.
E' un uomo tecnologicamente più potente quello che, con la semplice introduzione di una sostanza, può irrigidire le sue strutture oppure aumentare la sopportazione della fatica. La moglie sa che l'alcool con gli amici è meno pericoloso della concorrenza femminile, per l'integrità del suo ruolo come marito, anche al prezzo di una certa riduzione di ormoni, lucidità ed efficienza. La famiglia tollera l'alcool pur di nascondere le carenze affettive tra i suoi membri. Ed infine lo Stato ha il ruolo schizofrenico di curare i danni... con tasse imposte proprio sulla causa di tanta patologia.
Se questa è la funzione dell'alcool - il morbido che permette al duro di esprimere la sua potenza (per rendere l'idea provate a vedere quanti km riesce a fare senz'olio la vostra automobile!) - allora diventa comprensibile l'uso precoce (bevo perché non ho più l'affetto che si dà ai bambini, e non ancora quello che si cerca di costruirsi da adulti, l'uso estremo di una bestia sociale che si sente "fuori dal branco") così come l'uso al femminile (coincidente con la nuova assunzione di ruoli carrieristi quanto, all'opposto, l'uso compensatorio che può farne la casalinga) ed anche una diversa espressione in contesti latini o anglosassoni (che può discendere dalla diversa importanza attribuita alla famiglia). Ma, quale che sia la strada, la finalità sembra sempre essere la necessità di reggere la rigidità dell'individualismo.
Tornando all'incipit di questo post, la descrizione del cervello di un alcolista da parte di un neurologo, sembrano confermare la valenza affettiva "due monoammine, la dopamina e la serotonina che conducono la danza in cui si lascia trascinare l'alcolico debuttante... L'alcool è noto per la sua azione di consolatore e di rimedio contro lo stress e l'ansia che si esercitano in un circuito incentrato sull'amigdala cerebrale". Certo la neurologia è scienza in rapida evoluzione ma, che dopamina serotonina e amigdala rappresentino la tastiera di affetto e innamoramento, sono tutti ormai concordi.
Allora, cosa facciamo? L'etilometro della polizia stradale è già un freno, e quanto ci abbiamo messo a tirarlo! Ma una seria cura sociale di questo problema non può che passare attraverso il riesame complessivo delle strutture che lo generano, nella direzione di ricostruire una reale complessità di branco, dove il benessere e la completezza dell'individuo siano considerate il valore primario.