fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

venerdì 30 novembre 2012

Che genere di potere...


Tutti i giorni porto a spasso i cani e mi diverto a veder funzionare le regole
d'ingaggio della compagnia. Davanti il maschio, poi la parte preziosa del branco, cioè
le femmine e me. Arrivati ad un incrocio il maschio ci pensa un attimo e poi prende per
una parte ma, appena anche noi arriviamo al bivio... lancia uno sguardo e capisce.
Capisce se la sua valutazione delle intenzioni femminili è stata corretta, o se deve
fare dietro front e correre a rimettersi alla testa della nuova direzione.


<<La fondazione della Confederazione Irochese mantenne il sistema dei clan, la cui
appartenenza si basava sulla matrilinearità, già in uso nelle cinque tribù.
Periodicamente la Lega teneva un consiglio delle tribù, costituito da cinquanta capi
chiamati sachem, che venivano nominati dalle donne (matrone) di quei clan in cui queste
funzioni erano ereditarie, così come ereditari erano i nomi attribuiti ai capi. Il
consiglio non decideva a maggioranza, ma doveva discutere e mediare finché non si
raggiungesse l'unanimità, successivamente le decisioni prese dovevano ottenere il
consenso della popolazione. Dunque, sebbene la Lega avesse un governo composto
esclusivamente da uomini, ciascun membro di quel governo era responsabile delle sue
azioni verso le donne della propria famiglia. Non vi è dubbio che il potere detenuto
dalle donne trovava le sue basi negli schemi di sussistenza degli irochesi, che
vivevano in villaggi fortificati e in cui, sebbene da parte degli uomini fossero
praticate sia la caccia che la pesca, la fonte principale di sussistenza era costituita
dalla coltivazione di diverse varietà di mais, fagioli e zucche (soprannominati dagli
irochesi le “tre sorelle”), che era mansione delle donne, le quali inoltre erano le
proprietarie dei terreni e delle case.>>
http://it.wikipedia.org/wiki/Irochesi

<<La lega confederativa Irochese era riuscita a rompere la barriera di diffidenza che
esisteva tra le varie tribù, amalgamando numerosi clan le cui origini erano simili,
creando un concilio federale, rispettando allo stesso tempo un'autonomia locale. La
responsabilità di mantenere l'ordine pubblico apparteneva alle varie tribù e ai villaggi
individuali. La terra apparteneva alla comunità, come pure il sopravanzo dei prodotti
che era diviso con i vicini bisognosi e le capanne appartenevano alla famiglia della
linea materna.
Infatti la società Irochese, anche se in definitiva era una società maschile, era
basata e organizzata su di un sistema matrilineo. Erano le madri che selezionavano le
future mogli dei figli; era la matrona del villaggio che selezionava il Sachem (il capo
del villaggio che apparteneva ad una delle cinquanta famiglie aventi il diritto di
eredità a tale titolo) in consultazione con le donne della medesima parentela e con
quelle appartenenti ad altri gruppi, ed era la matrona a sanzionare la sua
destituzione. Questa influenza delle donne era forse nata dal fatto che erano loro ad
accudire ai lavori domestici e agricoli, mentre gli uomini erano spesso lontano dai
villaggi a pescare, a caccia o a far guerra.>>
Libera riduzione e traduzione di Giorgio Zanetti dal volume
"Indians of Canada" di Diamond Jenness (1886-1969); U.o.T.; 7th ed. – 1977


A differenza di questi esempi - dove il mandante femminile viene espresso chiaramente,
addirittura istituzionalizzato, e la struttura sociale può dunque essere espressa in
termini di genere in una formula del tipo: il femminile decide l'obiettivo ed il
maschile agisce per raggiungerlo - la mafia nasconde "l'ordine della madre" dietro il
sangue degli uomini e può essere descritta come: la strutturazione occulta delle
richieste femminili perpetuata attraverso il sacrificio dei maschi. (A dimostrazione di
questo valga il successo addirittura internazionale del metodo di contrasto alla mafia
escogitato dai giudici Falcone e Borsellino: la novità di questo metodo è che il
sequestro dei beni va a colpire non tanto l'apparato maschile-militare della mafia
ma direttamente il mandante femminile-patrimoniale).
I primi due casi rappresentano strutture sociali che discendono dalla diversa
fisiologia di maschi e femmine. Con la mafia ci facciamo idea di cosa può succedere
quando il familismo diventa totalizzante.
La democrazia che conosciamo, fondata sulla cittadinanza individuale, ha il limite
dell'indifferenza di genere. Potrebbe essere un contenitore neutro dove fare tanti
esperimenti sociali e dar corsa all'immaginazione, e invece rappresenta solo la
situazione in cui i portati dei due sessi continuano ad essere volti al fottere
(richiesta di oggetti di consumo e produzioni inquinanti) ma in compenso i mandanti
sono completamente disincarnati e nessuno imputabile!



giovedì 22 novembre 2012

Insignorilimento


Una villetta cintata, una telecamera, un Suv per proteggere i propri cari nel selvaggio
confronto stradale...
Una cascina nei boschi, dei cani liberi, l'ombra della provincia che ti permette ancora
di circolare con una vecchia macchina puzzolente con cui non puoi più entrare in
città...
Il territorio torna a popolarsi e nel flusso di migranti si trovano specie molto
diverse. Per qualcuno è solo un trasloco nei quartieri residenziali di una città che si
allarga, per altri si tratta di inventarsi l'organigramma di un nuovo ecovillaggio.
Entrambi rivendicano l'autonomia di una zona di pertinenza personale, un posto dove
essere liberi di decidere per sé. Alcuni se lo comprano per un buon piazzamento
nell'arena liberista, gli altri vorrebbero vederne riconosciuto un senso di pubblica
utilità e  ricevere magari qualche incentivo. Ma si rivendica l'autonomia per fare
cosa?



Ho visto gente di sinistra inalberarsi contro lo stato che gli ingiungeva di abbattere
la tettoia abusiva, offesi quasi d'esser considerati al pari dei peggior speculatori
del nostro belpaese... ma allora l'attività edile fa parte della libera espressione
individuale?, da rivendicare come si rivendica ad esempio il sacrosanto diritto di
coltivarsi la marjuana per uso personale?, spiegatemi! Ma anche a destra le idee non sono
ben chiare: il richiamo ad una vita sana diventa la ricerca di un nuovo edonismo,
l'ecologia non per la salute del mondo ma per l'individuo, a suon di  prodotti
biologici e slowfood, beautyfarm e personal trainer...
A destra l'insignorilimento si è giocato sul piano materiale, sulla proprietà da
allargare e conservare, la sicurezza del mattone. A sinistra si è invece preferito
investire nell'internazionalismo della cultura, creando tante nuove opportunità di
impiego per tutti 'sti figli "che abbiamo fatto studiare". I limiti per i primi sono di
trovarsi alla fine schiavi della proprietà, prigionieri in casa; per i secondi di perdere ogni senso
critico per star dietro al principio che tutto ciò che puzza di cultura va bene!
Attenzione, perché il senso di queste tendenze è chiaramente antidemocratico. Lo
possiamo trovare perfettamente espresso nella pubblicità con l'uso tutto recente, la
maleducazione civica, di fare spot che "ironizzano" sulle tasse promettendo ad esempio
"lo sconto dell'iva". Come lo troviamo nel costume più generale dove, tra "giustizia sportiva" e
"primarie elettorali", la gente non sa più distinguere le istituzioni dall'iniziativa privata.




Il rischio antidemocratico, complice una crisi globale che ci riporta ad un piano
economico interno, è forse quello di cedere un po' sul fronte dell'imperialismo
per tornare però a rivolgere la fottitura all'interno del corpo sociale con revival
di piccole aristocrazie e mafie locali.
La crisi è destabilizzante per tutti: un patrimonio famigliare faticosamente accumulato
di padre in figlio può venir bruciato come niente da un nipotino troppo viziato; così
come quando cominciano a scarseggiare i soldi forse si smette di spendere per cinema,
dischi e viaggi.
Ma la crisi economica non è sufficiente a cambiare la filosofia di fondo. Gli italiani
dimostrano un pericoloso disinteresse per la loro democrazia, un rifiuto che sa di
insoddisfazione ed autolesionismo. La Storia della Fottitura è fatta dei conti ancora
da pagare, e quando i nodi vengono al pettine forse nessuno lo può impedire, possiamo
solo prepararci al peggio correndo anche noi ad allestire il nostro piccolo "castello"...
con le forme di autonomia ed i modelli alternativi al fottere che sapremo inventarci.


venerdì 16 novembre 2012

Gestione dei boschi


Nell'acquisizione dei due ettari di terreno per la nostra cascina ci siamo trovati a
gestire un ettaro di bosco ceduo in riva.
Il bosco presentava 40 querce d'alto fusto ed un troppo fitto sottobosco di nocciolo,
impraticabile ed asfittico per l'umidità. Non c'era alcuna vegetazione al suolo e
sembrava del tutto disertato dai volatili. Unica traccia un sentiero da cinghiali, un
cunicolo alto 60 cm tra la ramaglia.
Il nostro primo intervento è stato ripulire tutto dai noccioli e dalle acacie,
preservando invece carpini e frassini di qualsiasi dimensione. La pulizia è stata
rifatta per 4 o 5 anni per tirar via tutti i ributti di entrambi, poi il residuale è
stato lasciato vegetare.
Sono invece morte da sole una ventina di querce, nel corso degli anni, seccate o cadute
per il vento. Colpite per più anni successivi da una grossa infestazione di vermi
verdi, quelli che invadono anche i meli, e quindi defoliate a volte anche per due volte
nella stessa estate, si sono probabilmente indebolite o anche solo sbilanciate nella
crescita. Anche il castagno è stato lasciato o è stato lasciato pollonare anche se
sempre canceroso, ma su questi terreni purtroppo il frutto non ha il gusto che
dovrebbe.
Nel frattempo i rovi hanno ovviamente invaso le tante zone rimaste scoperte e, dopo
aver provato per qualche anno a frenarne la vitalità con falcetto e decespugliatore,
abbiamo imparato a lasciarli sfogare: in tre o quattro anni il rovo fa la sua fiammata
e poi si esaurisce da solo, la funzione cicatrizzante delle piastrine nel sangue,
lasciando un posto arricchito per successive complessità.
Il tentativo di condizionare il bosco con piantini di quercia rilevati dai terreni
circostanti è risultato fallimentare (pur con tutte le cure nel trapianto hanno
attecchito meno di due su dieci) confermando l'idea che sia preferibile passare dal
seme: nel tempo perso a trapiantare poche piante si possono invece interrare centinaia
di semi con risultati sicuramente migliori.
Questo lavoro di accudimento e pulizia ha dato i suoi frutti, a cominciare dal
ripagarci dal costo del terreno e dell'attrezzatura. Per fare due conti: ci siamo
scaldati tutti gli inverni (per una stima di 800 euro/anno) e dalla segheria sono
uscite tavole da falegnameria per un valore di 12mila euro; a fronte di un investimento
in attrezzatura consistente in trattore 60cv usato 3000 euro, carriola usata da 35q.li
2500 euro, spaccalegna verticale nuova 1300 euro, sega da trattore nuova 750 euro.

 
 


In sostanza, ora che un bosco nuovo spinge la sua chioma tra le vecchie querce ed il
sottobosco punteggiato di fiori e piante diverse comincia a popolarsi di qualcosa di
vivo... possiamo permetterci due riflessioni sulla gestione silvestre.
Nella gestione del bosco non c'è stata nessuna sedimentazione culturale, la
meccanizzazione ha semplicemente interrotto e sostituito la vecchia pratica, e cioè
l'impegno di lavoratori marginali come vecchi e bambini nella raccolta della ramaglia
secca, di utilizzo del fogliame per l'impaglio della stalla, delle ghiande per i maiali
o, nelle zone a vocazione, delle castagne. Oggi è ben difficile trovare un bosco
praticabile e nella nostra zona mi viene difficile indicare a qualcuno dove andare a
cercare funghi o farsi una passeggiata. I trattori hanno bisogno di spazio per fare
manovra ed è impensabile che qualcuno che ha investito 100 o 200mila euro in
attrezzatura non cerchi di ripagarsela in fretta: ogni inverno il manto boschivo viene
traforato dai lotti dove si fa legna, lotti che dopo venti o trent'anni dall'ultimo
taglio stavano appena faticosamente riavendosi, che vengono nuovamente rasati a zero e
devono ricominciare tutto daccapo infestandosi di rovi noccioli e acacie.
E non è questione neppure di regole da seguire: già esiste la prescrizione di lasciare
"le quinte", cioè una certa percentuale di piante giovani per il ripopolamento, ma da
un lato semplicemente non viene rispettata perché nessun preposto controlla, oppure chi
la segue non se ne chiede il senso e seleziona inevitabilmente piante inadatte: la
questione non è tanto quella di lasciare l'esatta percentuale numerica, quanto quella
di identificare le "madri", le piante in grado di produrre seme e di popolare dunque in
breve tempo le nuove radure aperte.
D'altronde le istituzioni dal dopoguerra ad oggi non hanno offerto esempi di
lungimiranza: le ferrovie hanno sparso per tutta la penisola l'acacia usandola per
impiantare le sue massicciate, mentre la forestale ha promosso con perseveranza il pino
cembro e molti agricoltori negli anni hanno sprecato tempo ed energie per sgomberare i
boschi da querce carpini e frassini ed ogni essenza autoctona per far posto a questa
conifera che, fuori dal suo habitat, è cresciuta male e neppure è usabile da
riscaldamento con la resina che sporca e incendia i camini: boschi silenziosi, senza il
volo di un uccello, a file ordinate come le tombe di un mausoleo...
In sostanza, il condizionamento di un bosco è più un lavoro di pazienza che di potenza,
ma abbiamo anche verificato che è possibile ed economicamente ragionevole. L'ultima
foto dimostra quanto il bosco superficiale sia conseguenza della geologia sottostante:
nello stesso piatto le ghiande piccole sono quelle del nostro bosco, su terreni che
sono un deposito alluvionale pietroso ricoperto da uno strato di argilla eolica, a
confronto con i frutti di un substrato con una componente calcarea.
Prossimamente racconteremo in dettaglio la nostra esperienza sul legno da ardere e da
falegnameria.


domenica 11 novembre 2012

WWOOF lavoro in cambio di ospitalità


Questo post è per ringraziare Russel, Molly, Matthew, Klara, Fiammetta, Giovanni,
Paola, Mariangela, Thomas che questa estate ci hanno aiutato in cascina.
L'iniziativa, che abbiamo sperimentato per la prima volta, ci è sembrata lodevole e
sicuramente la continueremo appena torna la bella stagione.
Il wwoofing è un modo funzionale per scambiare lavoro e ospitalità presso cascine
biologiche in tutto il mondo. L'associazione WWOOF nasce in Inghilterra nel 1971
e garantisce una strutturazione "leggera" per far incontrare gente ed esperienze:
25 euro di tessera, una copertura assicurativa, ed il libero incontro nello spirito di un
reciproco arricchimento tra chi viaggia per imparare e chi cerca un modo ragionevole
di radicarsi sul territorio.

La nostra esperienza pratica è stata l'incontro con il responsabile
locale dell'organizzazione che è venuto una sera a cena da noi
per verificare lo spirito del posto (tra l'altro noi non abbiamo
alcuna certificazione biologica). Poi abbiamo stilato una piccola
presentazione del nostro insediamento (attività, alloggio, alimentazione,
stile di vita) che è stata inserita subito nell'elenco internazionale
e in breve abbiamo cominciato a ricevere le prime richieste.
In sintesi, in tre mesi abbiamo ospitato per periodi di 10-30 giorni nove persone
provenienti da Inghilterra, Canada, Cecoslovacchia, Olanda e, per gli italiani, da
sicilia e lazio.
Dal punto di vista pratico siamo soddisfatti: abbiamo ammucchiato legna per due anni e
nell'orto stiamo ancora raccogliendo la verdura piantata da loro. Certo, è un lavoro
anche organizzare il lavoro altrui, ma alla fine ognuno ha trovato modo di applicarsi
utilmente e, speriamo, di portarsi a casa qualcosa. Per parte nostra gli abbiamo fatto
vedere un po'di tutto coinvolgendoli in attività e lavori molto diversi e cercando di
passare onestamente le nostre conoscenze in merito (in una cascina tocca sapersi fare
da mangiare come aggiustare un motore).
Dal punto di vista umano ci siamo riempiti di compagnia, e proprio in quel momento
dell'anno in cui un contadino può cominciare a sentirsi un po' fesso a "stare lì" con
la zappa in mano quando tutti vanno in ferie! Empaticamente il rapporto che si può
instaurare mi è sembrato pulitamente aperto. Sintonia con alcuni e magari distanza con
altri ma comunque sempre al riparo di un patto di utilità reciproca e di conoscenza che
può contemplare anche la critica e la libertà di lasciarsi se proprio non ci si trova:
non c'è contratto e l'intesa è da costruire giorno per giorno.
Non c'è stato spostamento di soldi (l'olandese era decisamente contento di essersi
fatto un mese in Italia con i 40 euro del viaggio in pulmann) e può essere un modo per
tanti giovani disoccupati di cominciare a sperimentare delle cose concrete e cercare di
acquisire elementi di autonomia.
E' una versione ragionevole di turismo ed è un bel respiro per chi rischia di
provincializzarsi sul territorio: contatti internazionali, ganci per poter viaggiare a
nostra volta, esercizio di quelle lingue studiate a scuola e mai applicate...
Fa comunque parte dell'esperimento di una nuova gestione del tempo, delle energie e
delle ambizioni. E' un altro modo di socializzare capacità ed informazioni le più
diverse, anche al di là dell'aspetto lavorativo.
In sostanza, è un piccolo "premio" per l'insediamento territoriale, un plus valore di
socialità: loro vengono... perché noi siamo qui!
Fatelo anche voi... procuratevi una cascina o, nell'attesa, un biglietto del treno!


Convegno contadino


Ieri sera ho partecipato a Torino ad un convegno sulla realtà dell'agricoltura non
industriale (http://coordinamentocontadinopiemontese.noblogs.org/ )
Ringraziando gli organizzatori per la bella occasione di conoscere altre esperienze
locali di insediamento, agricoltura ed attività legate al territorio, vorrei qui
offrire agli amici che ho incontrato alcuni spunti di riflessione.






Autoproduzione o vendita?

Sono sicuro che persino il più incallito dei raccoglitori, capace di sopravvivere da
solo nel profondo di qualche foresta, apprezza l'offerta delle diverse competenze e
vocazioni che può trovare negli altri del suo gruppo.
L'autoproduzione ha un senso sociale: un gruppo in formazione, nel nostro contesto di
provincia postindustriale, teso quindi a riaquisire quell'autonomia ecologica che è la
cultura del raccoglitore, può permettersi l'onere del cercare e sperimentare tecniche
ragionevoli di autoproduzione solo se è in grado di associare realmente competenze e
vocazioni diverse di più persone.
Banalizzando, non ha senso che ti autoproduci il sapone se sei da solo, corri a ruscare
piuttosto e spera di far stare tutte le tue esigenze nel magro stipendio che riuscirai
a tirar su!
Perché non si riduca ad un semplice hobby l'autoproduzione deve partire dalle cose
essenziali: dall'orto e non dal sapone quindi e, pensando all'agricoltura, sicuramente
dal cereale prima ancora che dall'orto.


Produttività

Mettiamo ora che questa ipotetica neoformazione sociale sia riuscita ad organizzarsi la
completa autoproduzione alimentare e proviamo a valutarla in relazione al tenore di
vita.
Dalle nostre parti si vive con 1000-1500 euro al mese. Consideriamo pure che il vivere
associati riduca le spese a 7-800 euro. Facendo il conto che in 100 euro/mese ci sta
una ragionevole alimentazione a cereali e legumi, la nostra autoproduzione avrà coperto
solo 1/7 delle nostre necessità. Quanto tempo ci ha impegnato? Riusciremmo a farne
sette volte tanto?
Se la risposta è no allora forse vuol dire che il modo di produrre è ancora inadeguato
e/o il nostro stile di vita è troppo oneroso: imperialista o handicappato, per volontà
edonista o per limiti di salute, in ogni caso qualcosa che costa più di quel che
frutta.
Non voglio essere depressivo per chi ci vuole provare, penso solo che forse dovremmo
considerare separatamente i campi: chiedere all'autoproduzione di coprire  le necessità
di base (l'insediamento, la legna per la stufa, il cibo...) e rassegnarci a monetarizzare
il resto "in attesa di tempi migliori".


Territorialismo

Vivere sul territorio e cavarci il proprio sostentamento mi sembra un ragionevole
principio: chi e a fronte di quali giustificazioni dovrebbe ritenersi esentato?
Sacrosanto principio ma sacrificato, purtroppo, su due fronti. Da un lato soffocato da
un mondo contadino che a qualcuno dovrà pur vendere i suoi prodotti, e non può quindi
manifestare ad esempio contro i danni dell'urbanizzazione con slogan del tipo "niente
cibo a chi non si vuol sporcare le mani..."
Dall'altro esaltato da un certo ambiente alternativo che rischia di farne una nuova
immagine di sé, un nuovo "dover essere" del tutto irrealistico rispetto alle effettive
capacità fisiche e psichiche indispensabili a vivere territorializzati.
"Posso parlare di ecologia con chi mi presenta i catastali dei suoi terreni", questo
continua a sembrarmi un ragionevole discrimine per non perdere il contatto con la
realtà. L'acquisto di un pezzo di terra non mi sembra una vile compromissione col
diritto di proprietà, leggetela piuttosto come la tassa necessaria per sottrarre una
porzione di pianeta alla bieca logica mercantile...


Decrescita come despecializzazione

Quand'anche fossimo riusciti a toglierle quel sentore di "etica triste della rinuncia"
di cui ho parlato altrove, la bandiera della decrescita nasconde un altro limite: il
tecnicismo che presumiamo indispensabile per attuarla!
Dipende dall'immagine che ci siamo fatti dell'umano: l'ecologia sarà (forse) una nuova
capacità faticosamente raggiunta dal progresso della specie? oppure sarà semplicemente
il riprendersi da una temporanea perdita di coscienza (la civiltà storica, dal
neolitico ad oggi) ed il ritrovare la forma e la fisiologia cui abbiamo fatto
affidamento nei nostri primi novantamila anni di vita?
Oggi le informazioni tecniche specialistiche in ogni campo tentano di supplire al
deficit cognitivo cui ci ha condotti la civilizzazione, e possono forse aiutarci a
superare l'impasse, ma non sono la soluzione.
L'obiettivo io credo sia quello di riaquisire una complessità interna alle nostre
persone, la salute e la serenità sufficienti a ad operare scelte "istintuali" azzeccate
ed efficienti.
Forse dovremmo smettere di dar valore alla conoscenza in quanto tale, e cominciare a
riferirla al benessere della specie. E' prioritario, per fare un esempio, adottare
quotidianamente il criterio di integrare la dieta con un assortimento di miso, alghe,
ortiche o quant'altro... piuttosto che impararsi a memoria i microelementi di cui
abbiamo bisogno. La biochimica ci ha aiutato ad uscire dal buco culturale in cui ci
eravamo messi ma poi, quando avessimo riaquisito una pratica istintuale, lo
specialismo tornerebbe ad essere secondario ed eventuale.
Così forse l'università e le istituzioni dovrebbero considerare il loro ruolo in un
processo di decrescita. Luogo di ricerca e formazione, certo, anche nel campo delle
nuove tecniche meno invasive che ci servono oggi, ma solo a patto di assumersi
pienamente la responsabilità dei limiti e degli effetti collaterali insiti nel suo
specialismo.
Mi torna sempre in mente un manualetto edagricole anni '70 dove un professorone
sicuramente titolato indicava il cherosene per diserbare i finocchi, o i copertoni di
automobile per crescere meglio l'insalata sotto al sole... E' l'università che deve
spiegarmi come si può arrivare a tanto partendo solo da un po' di bonario
positivismo...


Agricoltura o allevamento?

E da ultimo, purtroppo, la nota dolente sempre all'ordine del giorno negli "incontri
agresti": il confronto tra agricoltori e pastori!
Che senso ha parlare in contesto ecologico di utilizzo del territorio quando non siamo
in grado di valutare criticamente il nostro prodotto?
Che senso ha cercare modi alternativi di produzione e commercializzazione di alimenti
che possono non essere ecologici per l'umano?
Se ci precludiamo questa valutazione ci precludiamo la possibilità di costruire
quell'alternativa culturale dove i nostri prodotti dovrebbero ritornare ad essere
"normali". Perché richiedere una specifica produzione biologica invece di pretendere
semplicemente che ciò che viene chiamato alimento e commercializzato non sia una merda?
Mi sembra che rinunciare al confronto sul portato culturale e materiale di scelte
fondamentali come quella tra agricoltura e pastorizia, abbia solo l'effetto di
depotenziare: depotenziare tutto, l'incisività politica come l'interesse di mercato.
Probabilmente ci converrebbe distinguere tra una logica d'impresa, dove l'attivismo
produttivo ha il limite di non riuscire ad essere critico sul proprio prodotto, ed una
logica di valutazione ed orientamento culturale che ha invece bisogno di allargare lo
sguardo oltre il problema contingente della fattibilità.
Distinguere, ma riconoscendo una fondamentale asimmetria: prima, ovviamente, si cerca
di capire di cosa abbiamo bisogno e poi si trova il modo migliore di produrlo.
Dovremmo avere il coraggio di coniare un nuovo slogan:

Coltiviamo i campi... ma limitiamoci ad allevare noi stessi!

Ciao a tutti

venerdì 2 novembre 2012

Cos'è la filosofia per me


La filosofia è il rispetto per la coerenza dei propri discorsi. E' vero che una parola non è l'oggetto cui dà nome eppure, prima di qualsiasi raffinato discorso sulla validità della rappresentazione è doveroso il banale richiamo alla sincerità dell'interlocutore.
C'è bisogno di un'adultità che non conosciamo, fondata sull'autonomia personale relativa alle proprie capacità ed al proprio stato di salute, che possa stringere un patto alternativo a qualsiasi ideologia o interesse di parte. Questo patto, questo riconoscimento reciproco, non può essere fondato né sul familismo mafioso né sull'impersonalità democratica, che nell'irresponsabilità collettiva partecipa agli stessi danni della peggior delinquenza: decidere democraticamente di essere imperialisti...!
Per fuggire dal rischio di conflitto o di complicità due adulti possono soltanto trovare nella realtà il loro arbitro. Creare un'intesa sul realismo può comporre le forze efficacemente senza rischiare di mettersi assieme per fare la guerra contro qualcun'altro. Poter dare per scontato un presupposto di sincerità moltiplica esponenzialmente le capacità del gruppo o della rete di relazioni.
Ma "l'altro" in questo caso non è una figurazione astratta, è l'altro concreto col quale ci siamo misurati nello sforzo di riconoscere i nostri limiti, le nostre debolezze e dipendenze. L'altro "conosciuto" è partecipe di un'intimità sfacciata quanto può esserlo una relazione dove il desiderio non è costretto nella solita alternativa amico-amante, un'intimità che trasforma il soggettivismo da semplice limite dell'oggettività a preziosa "porzione di realtà", un'intimità garante del grado di consapevolezza personale raggiunta.




E' un patto virile? Un atteggiamento troppo duro, con se stessi e con gli altri? Troppo freddo, come un tentativo di astrazione? No, forse noi la vediamo così, noi figli del postmoderno, ma a vederla dall'altra parte, da parte della forma e della vitalità dell'ancestrale, questo è solo un incipit: la verifica della propria onestà intellettuale, la ricerca di eventuali compromissioni col privilegio e, in sostanza, la constatazione dei nostri limiti sono solo un presupposto di adultità. Il bello viene dopo: la vita, la soddisfazione dei bisogni e dei sensi, la ricerca di una maggiore consapevolezza. Qui sì è l'esercizio di quella spontaneità che tutti vorremmo avere, l'espressione della specificità personale, la complessità dell'intuito... ma tutto questo non ha bisogno di parole per viversi!
Qui ed ora, invece, il contesto dell'individualismo contemporaneo ha bisogno di critica, di battere il naso e di piangere. Non è colpa mia se la piena partecipazione alla vita, il coinvolgimento vitale che non conosce le rigidezze dell'ideologia, per i figli della civiltà è purtroppo solo un obiettivo. Avere pietà di noi stessi, in questo caso, non significa chiudere gli occhi sulla cruda realtà del nostro handicap di umanità, ma provare a sostenerne consapevolmente il peso per riuscire a scorgere un futuro, forse, ancora possibile.