fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

giovedì 26 aprile 2012

Inquinàti dentro!


<< "Il tempo che si trascorreva lontano dagli amici pareva sempre
tempo perduto", dice mio fratello. Andare a scuola, fare i compiti,
erano attività in sé né belle né brutte, ma sgradite perché
consumavano tempo; si sciupava tempo perfino a mangiare alla tavola
di casa. Appena possibile ci si precipitava "fuori", ci si trovava
cogli amici, e solo allora ci si sentiva contenti. Per questo verso
nessun'altra esperienza successiva può mai essere altrettanto
perfetta. Il mondo era quello, auto-sufficiente, pienamente
appagato. Se si potesse restare sempre così, non si vorrebbe mai
cambiare (...) Per i ragazzi di un paese la Compagnia è
l'istituto-madre. E' un'associazione libera, un club senza sede e
senza regolamento, ma i suoi legami sembrano in quegli anni più
forti di ogni altra associazione naturale o tradizionale. Sorge
ovviamente tra vecchi compagni di scuola, vicini di contrada,
coetanei; corrisponde alle varie generazioni, anzi è uno dei modi
fondamentali di contare le generazioni in paese (...) In essenza la
Compagnia era una libera associazione coi propri pari; normalmente
non c'era un pecking order, e non c'erano veri capi. Le varie
capacità di ciascuno erano bensì conosciute e apprezzate, ma il
requisito fondamentale era quello del piacere di stare insieme da
pari a pari: o c'era questo piacere, o non c'era; e quando c'era,
le doti e i difetti personali diventavano cose secondarie. >>
(Luigi Meneghello, "Libera nos a malo", 1963)

E' difficile spiegare il "gruppo dei pari" a chi non l'ha mai
visto. Questo è il peggior danno della modernità: la perdita di
complessità umana.
Intere generazioni sono state deprivate di quel momento
fisiologico, formativo perché spontaneo, paritario e promiscuo.
Bambini sempre accompagnati, giardinetti cintati e telecamere:
l'igienismo ha vinto sulla voglia degli altri, la scuola addestra a
sopportare compagni non scelti, a competere o al massimo a "suonare
assieme" (nell'estetica di sinistra), e lo sport sacralizza il
tutto! Questo è il "danno antropologico" di cui ci avvertiva
Pasolini in quegli stessi anni, questo l'inquinamento interiore, il
"tradimento di sé" che possiamo riconoscere a fondamento della
"Civiltà del Fottere".
Come spiegare a qualcuno che "gli manca un pezzo"? Forse non è più
possibile. L'individualismo inquina di per sé, e la
desocializzazione è incontrollabile e pericolosa.
Attenti perché da quando si è cominciato a contestare i limiti
della società occidentale sono passati cinquant'anni ed il danno
non ha fatto che aumentare, fuori e dentro di noi. Certo, il gruppo
dei pari aveva dei limiti - l'abbiamo conosciuto ormai trasformato
in classe di leva militare, dove si imparava ad andare al bordello
e si escludeva l'omosessualità quale fattore di coesione interno al
maschile, e destinato fatalmente a dissolversi nella diaspora
matrimoniale - ciononostante forniva ancora, seppur rigido, quel
galateo minimo per convivere individualisticamente senza scannarsi.
Ora, con la perdita del gruppo dei pari, è cambiato il soggetto
della modernità e tra questi certamente anche il soggetto
contestatore nel verso, se possibile, di ulteriore semplificazione:
antagonismo, senso di irrealtà e l'approfondirsi di una solitudine
magari non più percepita ma non per questo meno interiormente
lesiva.
Più l'urgenza cresce, più diminuiscono le possibilità di reagire
così come il numero di persone che possano anche solo capire la
situazione in cui ci troviamo. Sappiamo benissimo come ridurre il
nostro impatto ambientale, quel che non sappiamo è perché mai ci
ostiniamo a non farlo!
E' urgente un'antropologia della socializzazione ed è
indispensabile che chi ha subito quel danno se ne renda
consapevole. E' essenziale ricostituire le condizioni in cui quella
spontaneità possa di nuovo fiorire e ricominciare a produrre
complessità. E' necessario, perché l'ecologismo non debba
dimostrarsi, di fronte al disastro, come il triste esorcismo della
vita che si sta perdendo.

mercoledì 18 aprile 2012

Virilità Antagonista

Ho trovato la risposta di Devis-Pecoranera alle tante critiche ricevute dopo un'intervista sul Corriere della sera. La trovo fondamentale, per tutti:

<<Amici miei finisco ora di leggere i commenti all'articolo uscito sul sito del Corriere, e il cuore mi batte forte mentre scrivo questa risposta. Dai più sono etichettato come un figlio di papà proprio perché ammetto di vivere in una casa di proprietà. Altri mi danno dell'evasore, chi del furbo parassita che succhia i servizi senza pagare le tasse, altri ancora mi mettono in guardia contro gli acciacchi dell'età. Ebbene sì, cari detrattori, tutte le critiche che mi si muovono sono plausibili ma riscontro l'atteggiamento tipico dello stolto che guarda il dito mentre il dito indica la luna. La mia esperienza è parziale proprio perché si tratta della vita di un singolo, di un giovane di ventisette anni che per forza di cose non può aver messo in ordine il mondo né aver dato risposta a tutti i problemi della vita. Ma rifiutare la riflessione che propongo significa precludersi delle possibilità, vivere del motto «tanto il mondo va così, che ci vuoi fare».

VIVERE DA SFIGATI - Nel mio piccolo mondo di figlio di papà appena maggiorenne ho capito qual era il mio percorso e per dieci anni ho proseguito in un'unica direzione, quella di cambiare stile di vita. Ho rinunciato a studiare agraria all'università per lavorare per cinque anni come tecnico informatico (ad oggi ho pagato cinque anni di contributi pieni su nove, a ventisette anni), dunque conosco bene il significato della parola lavoro. È con questi stipendi che mi sono comperato un pezzo di terra, due serre, un motocoltivatore e tutto il necessario per fare il contadino. È con questi stipendi che ho messo da parte una riserva di emergenza per il temuto dentista. Sono anche riuscito a starmene lontano dalla città, a capire che in montagna ci sono molte risorse fisiche e spirituali, la stessa montagna abbandonata dove vivere è da sfigati. Salvo nel mio caso in cui il giudizio vira a privilegio di pochi. A questi sono seguiti i quattro anni da disoccupato dove la mia nuova occupazione è stata il lavoro nei campi che mi ha fatto apprendere il significato della parola fatica ben più che il lavoro d'ufficio. Zappando la terra, non ci crederete, si ottiene del cibo e divengono rade le visite al supermercato. Lavorando a quattro passi da casa ho potuto vendere l'auto e iniziare un'altra attività part-time: pedalare.

PEDALARE - Proprio così, pedalare è un lavoro perché genera mobilità, la stessa mobilità per cui paghiamo profumatamente la benzina, l'autostrada, il bollo, l'assicurazione, l'ammortamento e la manutenzione di carrozze sempre più care. Ecco che le mie gambe sono diventate belle grosse e se prima andavo come una cinquecento ora scatto come una berlina. Da bravo figlio di papà ho una casa bella calda grazie alla fiamma che brucia nella cucina a legna sulla cui piastra cucino di tutto. E da grande privilegiato possiedo anche un boiler per l'acqua calda della doccia, sempre a legna. Il fuoco va acceso e tenuto vivo, non basta girare la manopola del riscaldamento. E non c'è bolletta da pagare, quella di Zar Putin per cui il nostro amato ex-premier faceva tanti viaggi in Russia. Io mi rivolgo ai boschi e vi assicuro che gli alberi non camminano fino a casa mia, né un ciocco si spacca per telecinesi. Ma non leggete queste parole come polemiche, piuttosto cercate di intuire la mia carica di ragazzo che ragiona e s'incazza per le critiche proprio perché comprende che sono plausibili ma anche venate di disfattismo. Nel mio libro, titolato appunto«Pecoranera», ho cercato di raccontare con sincerità la mia esperienza e proporre degli spunti di riflessione anziché dogmi ecologici, sociali o politici. Solo una cosa: non dite mai che io non so cosa significhi la parola fatica perché altrimenti vi invito a passare qualche giorno da me per convincervi del contrario! >>
Devis Bonanni dal Corriere 26/3/2012

Allora, possiamo pensare che sia ragionevole che Devis si paghi i contributi per la pensione e che debba ancora sforzarsi per ampliare un poco la sua dimensione d'impresa (contributi minimi circa 2000 euro/anno, che gli consentono un minimo di introiti senza obbligo di fatturazione di 7000 euro/anno, pari quindi a
583-166= 417 euro/mese netti per vivere, la legge italiana gli consentirà di costruirsi casa sui suoi terreni agricoli e potrà sposarsi e fare tanti agnellini neri, o perlomeno maculati)... ma una cosa è certa, le sue parole ed il tono della risposta dimostrano la validità della sua esperienza:

Mettere la virilità nel fare cose evita l'atteggiamento antagonista con gli altri.

lunedì 16 aprile 2012

Antimodernità?


(riporto il commento al Manifesto contro la Modernità di Massimo Fini, trovato sul blog di Luca Barbirati)




L'ossimoro contemporaneo? Trovare sul web un manifesto contro la Modernità e la Globalizzazione!
La maldestra iniziativa del Sig.Fini mi fa quasi venir voglia di stilare un contro-manifesto... Ma questo lasciamolo fare al populismo di sinistra: che i populismi si combattano a vicenda, la realtà non ha bisogno di proclami.
Chi si rende conto che è la propria condizione di debolezza a generare il Potere, e che non c'è nessuna incarnazione del Male da combattere, allora può darsi concretamente a cercare un'alternativa. Questo, per quanto piccolo, sarà già un movimento nel verso giusto.
Piuttosto, il Sig.Fini ci dica cosa ha identificato della sua complicità di intellettuale alla Modernità, a cosa dovrebbe rinunciare per dare il suo contributo al mondo nuovo? Purtroppo la destra è tale proprio perché non sa rinunciare al suo nostalgico attaccamento alla Tradizione.

"Se vi dicessi che c'è in Europa un Paese dove non esiste la disoccupazione, non esiste il lavoro precario, non esiste il problema dei pendolari, non esiste l'inflazione, dove le tasse sono al 10%, dove ognuno possiede una casa e quanto basta per vivere e quindi non ci sono poveri, mi prendereste per matto. E avreste ragione. Perchè questo è il Paese che non c'è. Ma è esistito. E' esistito un mondo fatto così. E si chiama Medioevo Europeo..."
(M. Fini, art. da www.ariannaeditrice.it)

Ecco l'immaginario: una macchina del tempo per tornare a presupposte radici affondate in un medioevo fantasy. Che novità: i suoi professori a scuola non facevano lo stesso appellandosi ai greci...?
Basta, quando potremo cominciare a dire che la classicità ci ha stufato?

"Qualunque cosa affermi l'opinione popolare, qualunque cosa sostengano i classici stessi, il classico non appartiene a una sfera ideale, e nemmeno vi si attinge aderendo a una qualche ideologia. Al contrario il classico è l'umano. O almeno quello che sopravvive dell'umano."
(J.M. Coetzee, "Doppiare il capo", Einaudi 2011, p.203)

Questo può dire una critica onestamente ecologica al mondo dei padri, non cercare conforto dai nonni ma ricollegarsi all'umano, a ciò che ha resistito, se siamo ancora vivi, a qualunque opera di violenza e di civilizzazione.
Il bucolico medioevo era fatto di religiosi, guerrieri e contadini così come la disincantata modernità è fatta di intellettuali, imprenditori ed operai. Nessuno può dirsi fuori, la macchina dell'imperialismo è complessa, allora come oggi, ed ogni parte è funzionale all'intero, complice del danno. E il postmoderno, cos'altro è se non il momento della spartizione del bottino? Dislocata la produzione fioriscono gli artisti, operai volontari del regime, falangi di avanguardisti a cucire un'estetica che è solo dialettica alla violenza della rapina.
Che ogni categoria riconsegni le armi pagando la sua responsabilità, questo possiamo augurarci. E che ciascuno valuti sul suo, praticamente, la capacità di svincolarsi da quelle cattive abitudini. Solo se il mio orto produce davvero posso tener fuori l'agronomo, posso dirgli sinceramente: non mi frega che ti ripresenti oggi come biologico, spiegami piuttosto perché solo ieri consigliavi il kerosene per diserbare i finocchi o i copertoni d'auto per far crescere più in fretta l'insalata!
Chi ha visto uno spiraglio non può fermarsi alla speranza (segreta o sbandierata, fa lo stesso) di un rivolgimento materiale, di una crisi economica che costringa anche gli altri ad aprire gli occhi. E' rischioso invocare il disastro, è irresponsabile l'abbandonarsi ai propri sentimenti d'impotenza quando abbiamo invece, davanti a noi, tutto un mondo da coltivare!

Cantando o non cantando,
non so come né quando,
qualcosa di umano è finito!
[Pier Paolo Pasolini, 1974]

giovedì 12 aprile 2012

No Tav


Caro Federico,

ci conosciamo appena. Sei o sette anni fa avevo visitato la tua
azienda agricola: 1500 mq di serre con una coltivazione gestita
alla Fukuoka e vendita diretta ad una clientela affezionata.
Sono anni che abbiamo problemi con la virosi del pomodoro ed ora ci
siamo rassegnati a metterli in serra. Per questo, onde evitarmi la
ricerca di mercato, ti telefono:
Come va? Mica tanto bene, rispondi, ho fatto venti giorni di
carcere e adesso sono agli arresti domiciliari, posso andare
nell'orto sono quattro ore al giorno...
La cosa mi sorprende, in una frazione di secondo sono costretto a
rivedere l'immagine che mi ero fatto di te, evidentemente non più
adeguata. L'immagine di una persona gentile, a mio avviso non
sufficientemente "contro", che mischia un orto biologico al moderno
turismo invernale... lascia il posto ad un X difficile da
tracciare.
Ti chiedo come mai e tu mi rispondi: No Tav!
Le maglie si sono ristrette ed il potere ne ha pigliati 27 nel
mucchio e gli ha appioppato accuse di resistenza e oltraggio a
pubblico ufficiale. Il personaggio che mi sembrava fin troppo
moderato, prende le tinte virili dell'attivista.

Allora parliamo di virilità, di quella tua, concreta, che potrebbe
risolvere la necessità di verdura per un villaggio di cento persone
e che invece è girata in impresa economica. Non te ne faccio una
colpa, neppure io ho abbastanza gente attorno da poter pensare
seriamente all'autoproduzione e così, come quasi tutti, mi vendo.
Purtroppo dico, perché è un limite.
Così, invece di una fioritura di ecovillaggi per tutta la Val Susa,
noi vediamo quella virilità misconosciuta, spodestata dall'altra
versione, quella alla Che Guevara, e dal conseguente
contraddittorio con la forza pubblica.
La No Tav è una piccola guerra che va avanti da vent'anni. Una
vallata alpina "resiste" ad una ferrovia che punta a collegare il
norditalia all'europa. Ma, una volta, non era proprio il treno
quello ecologico?
Certo, voi dite che la valle è già stata sfregiata dalle autostrade
ma, non più di un mese fa, avete fatto una riunione coi proprietari
degli impianti di risalita preoccupati che i blocchi stradali
penalizzassero gli introiti.
Questo mi sembra dimostrare che non abbiate elaborato una nuova
ipotesi di stile di vita - e quella di un nuovo stile di vita mi
sembra l'unica forma di reale militanza alternativa: non siete un
nascente villaggio in grado di dare un nuovo senso ad una valle
alpina che non sia quello del turismo.
Certo, vi siete riempiti di strade, ma quelle strade, all'epoca in
cui nevicava ancora, erano soldi su cui nessuno sputava. Se
facciamo il confronto con le adiacenti a "fondo cieco", essere una
valle di transito vi ha arricchito per secoli.
Quanto all'ambiente antagonista che avete trovato come alleato,
voglio solo ricordare che da sempre i Centri Sociali vivono
banalmente di spaccio di alcolici esentasse, e mai che abbiano
prodotto qualche esperienza creativa che non fosse il vivere degli
scarti cittadini.
Sgombriamo ancora il campo da motivazioni di cautela rispetto a
verosimili sospetti di interessi mafiosi, come da ragioni di
opportunità tecnica dell'opera, che sono senz'altro importanti ma
non certo commisurati con il fenomeno e le forme di protesta di cui
parliamo. Allora che resta?

Resta che qui si vorrebbe sottrarre un pezzo di territorio alla
nazione ed ai suoi giochi di interessi, istituzioni e potere, come
fosse una riserva per la vita selvatica o un pezzo di foresta per
una tribù di Yanomami.
Così formulata mi sembra una ragionevole rivendicazione... ma con un
piccolo particolare: oggi, in italia, nessuno mi sembra in grado di
rappresentare quella tribù!

Dai, non abbatterti! Diamoci da fare, siamo ancora in tempo per
cominciare, in piccolo, nelle nostre case, negli orti e nelle
nostre imprese di tutti i giorni. Anche perché la fatica più grande
è forse quella che stiamo già facendo ora: imparare ad essere un
po' più realistici sui nostri limiti.

martedì 10 aprile 2012

Walden? Che palle!!!



Walden? Che palle!!!
Quella roba dovrebbe essere il mito del mainstream ecologico? Bersi Thoreau è come bersi la coca cola! Americana, o meglio protestante, come "protestante" è il posizionamento del soggetto moderno toutcourt (nei termini di una religione che ha perso le insegne storiche per tradursi nella versione laica dell'individuo asociale che trova sfogo al supermercato e spera che poi la scienza lo salverà dagli eccessi... ma per questo leggete Stato di Grazia!).
Tutta questa ricerca di selvatico fa sospettare soltanto una grossa difficoltà a stare con gli altri, ma proviamo a partire da un'altra definizione di natura:

La natura è "la realtà non mutuata dal privilegio".

Nella natura l'umano può esprimere la sua vocazione sociale; lo stare su di un piano di realtà è condizione per l'incontro: prendersi cura di un pezzo di terra, costruirsi un nido ragionevole, coltivarsi qualcosa, fare legna... il tutto misurandosi necessariamente con le proprie capacità ed i propri limiti.
E' sul piano dei fatti che si decide se l'incontro è realmente solidale e creativo, "gratuito" nel senso di reciproco interesse o meglio, di interesse comune nell'adesione alla realtà. Nella natura possiamo verificare tutte queste cose, in città no. In città tutto è organizzato per garantire al cittadino individualista la sua splendida solitudine...
Attenzione perché Thoreau rivendica alla collettività (non a me personalmente ma ad un qualcosa di astratto, sopra di me) il suo non aver bisogno di me, il suo individualismo. Andare a vivere due anni nel bosco per dimostrare a tutti di non aver bisogno di nessuno: questo dicono essere il mito di generazioni di ecologisti, questo sembra promettere una partecipazione spirituale con la natura.
In realtà questo  ha solo regalato agli americani la tradizione della gita nel bosco, del campeggio, così come in europa tutta la mistica di scalare le vette (tutte cose che non hanno portato ne' gli uni ne' gli altri ad essere meno imperialisti). In questa natura il moderno può al massimo cercare una sorta di "conferma estatica" del proprio individualismo, col risultato di poterlo così ritenere normale.
Questo parlando di natura, ma Thoreau è anche il padre della disobbedienza civile. In lui hanno trovato riferimento le lotte pacifiche di M.L.King e di Ghandi. In effetti non possiamo che condividere la sua considerazione della vita civile come "il solo espediente attraverso il quale gli individui dovrebbero riuscire, di buon grado, a non disturbarsi l’un l’altro; e, come è stato detto, quanto più il governo è efficace tanto più i governati sono lasciati liberi e indisturbati."
In pratica come funziona? In una collettività che s'affida al criterio della maggioranza perché non sa più decidere cosa è giusto fare e cosa sbagliato, spetterebbe a lui spiegare su cosa fonda invece il suo convincimento di essere nel giusto, convincimento per il quale chiede uno statuto speciale: coloro che ritengono di essere nel giusto non dovrebbero "aspettare fino al momento in cui saranno in maggioranza di un voto, prima che sia concesso loro il diritto di prevalere attraverso il numero. Io penso che sia sufficiente che essi abbiano Dio dalla loro parte, senza attendere nessun altro. Inoltre, qualsiasi individuo che è più giusto dei suoi concittadini costituisce già di per sé una maggioranza di uno." (dal pamphlet "Sul dovere della disobbedienza civile", 1848).
Se questa è tutta la profondità di giudizio che riesce ad esprimere il cittadino-Thoreau come non sostenerlo nella sua "giusta" pretesa di saltare la fila e passare davanti a tutti?!
Ma al di là delle sue posizioni morali ottocentesche, la disobbedienza non funziona. In pratica si risolve nel procurare comodità e vantaggio nei confronti dell'autorità e della gestione della forza pubblica. Di fatto l'obiezione di coscienza ha offerto alle ultime generazioni la comodità di non doversi occupare di una cosa sporca come la gestione della violenza: paghiamo qualche mercenario e li mandiamo al nostro posto a far guerre di cui possiamo anche perdere il conto...
La disobbedienza come pratica politica nelle lotte d'emancipazione ha permesso tutt'al più degli accomodamenti: i neri americani possono oggi competere lealmente coi bianchi nella corsa ad una piena americanità, cioè a quel tenore di vita che non può che gravare sulle spalle di qualcuno. I neri si sono sottratti allo schiavismo ed ora condividono equamente la responsabilità dell'imperialismo o dello sfruttamento ambientale necessari a mantenere l'obesità di un moderno stile di vita.
L'india si è sottratta al colonialismo ed ora può competere come indipendente nazione industriale alla rincorsa dell'inquinamento globalizzato...
La disobbedienza non funziona perché non è sottraendosi ma facendo qualcosa di alternativo, coltivando la propria autonomia, che si diminuisce il potere dello stato. Ed il coltivare la propria autonomia è proprio quanto un ideologo come Thoreau riesce a fraintendere nel concetto di rivendicare il proprio individualismo. E dove, più grave ancora, quel fraintendere non solo falsifica un concetto me ostacola ogni ricerca di un'ipotesi alternativa. Questo intendo quando in Stato di Grazia richiamo questi ed altri "fraintendimenti" a proposito dell'america: l'imporsi della modernità come religione non si fa più attraverso l'imposizione di dogmi, ma di "fraintendimenti".
Bisognerebe ancora dire di Thoreau trascendentalista, ma di questa corrente filosofica e del suo legame col variegato panorama new-age torneremo ancora a parlare. Qui ci basta dire che il problema di Thoreau non era dunque il suo rapporto con la natura quanto la sua partecipazione al mondo umano. Thoreau avrebbe dovuto spiegarci il nuovo soggetto alla ribalta: quell'uomo "imprenditore della modernità" che, dialetticamente, stava sviluppando tutta questa voglia di campeggio e di passeggiate domenicali per i boschi!
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Forse non di un mito abbiamo bisogno, ma d'esempi umani che ci rassicurino della nostra, di umanità. Qualcuno che semplicemente sveli, a noi moderni alienati, la realtà e la consistenza di quel nucleo caldo vivente che ci anima in forma di umani, e che tutti abbiamo la possibilità di riscoprire sotto gli abiti più pesanti di qualunque civiltà o cultura. Faccio un esempio:

<< Ascoltami, Michael. Sono il solo che ti può salvare. Il solo che vede in te l'essere unico che sei. Il solo a cui stai a cuore. Il solo che non ti considera né come un caso facile adatto a un campo leggero né come un caso difficile da spedire in un campo duro, ma come un'anima al di sopra e al di là di ogni possibile classificazione, un'anima felicemente fuori dalla dottrina, fuori dalla Storia, un'anima che cerca di sbattere le ali dentro un rigido sarcofago, che mormora qualcosa dietro una maschera da buffone. Sei prezioso, Michael, per come sei. Sei l'ultimo della tua specie, una creatura sopravvissuta da un'era precedente, come la latimeria o l'ultimo uomo che parla yaqui. Noi siamo tutti precipitati dentro il calderone della Storia, solo tu, seguendo la tua luce idiota, aspettando il tuo momento in un orfanotrofio (chi avrebbe pensato proprio a quello come a un rifugio?), sfuggendo alla pace e alla guerra, aggirandoti furtivo all'aperto dove nessuno si sarebbe sognato di cercare, sei riuscito a vivere in questo modo antico, lasciandoti scivolare nel flusso del tempo, osservando le stagioni, non cercando di cambiare il corso della Storia più di quanto non faccia un granello di sabbia. Dovremmo apprezzarti e celebrarti, dovremmo mettere i tuoi vestiti su un manichino in un museo, i tuoi vestiti e anche il tuo pacchetto di semi di zucca, con un'etichetta; ci dovrebbe essere una targa infissa sul muro dell'ippodromo a commemorare la tua permanenza qui... >>

Questo è Michael di Coetzee (J.M. Coetzee "La vita e il tempo di Michael K" Einaudi 2001), ma quanti Michael K. ci sono al mondo che attendono, con pazienza, che questa brutta Storia finisca il suo corso?
Non c'è bisogno di trasformarli in nuovi miti, basta sapere che quella forma, quella "base minima di umanità", tutti ci accomuna. Ci basta sapere che possiamo tornare ad esserne consapevoli, al solo prezzo di quel poco di salute sufficiente ad ammettere il dolore dei nostri limiti, ad avere pietà di noi stessi.


La vita e il tempo di Michael K.


<< - E adesso come facciamo per l'acqua? - lui, Michael K, avrebbe tirato fuori un cucchiaino dalla tasca. Un cucchiaino e un lungo spago arrotolato. Avrebbe liberato la bocca del pozzo dalle macerie e avrebbe piegato il manico del cucchiaino in modo da formare un anello a cui legare lo spago. Poi l'avrebbe calato nella terra in profondità e, quando l'avesse tirato su, ci sarebbe stata acqua nel cavo del cucchiaio. E così, avrebbe detto, si può vivere. >>

martedì 3 aprile 2012

Pensiero debole e Poteri forti


Ciao,
sono Michele, uno studente di filosofia, ho letto con interesse le tue valutazioni sul potere.
Il potere di stabilire la realtà, questo mi sembra essere il nocciolo della questione, almeno per quanto riguarda i filosofi di professione. Ti segnalo a questo proposito dal Blog di Gianni Vattimo del 19/8/2011:

<< L’addio al pensiero debole che divide i filosofi
FERRARIS E VATTIMO DISCUTONO IL MANIFESTO DEL "NEW REALISM" CHE PROPONE DI RIPORTARE I FATTI CONCRETI AL CENTRO DELLA RIFLESSIONE

FERRARIS Gli ultimi anni hanno insegnato, mi pare, una amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito della oggettività, non ha avuto gli esiti di emancipazione che si immaginavano illustri filosofi postmoderni come Richard Rorty o tu stesso. Non è successo, cioè, quello che annunciavi trentacinque anni fa nelle tue bellissime lezioni su Nietzsche e il "divenir favola" del "mondo vero": la liberazione dai vincoli di una realtà troppo monolitica, compatta, perentoria, una moltiplicazione e decostruzione delle prospettive che sembrava riprodurre, nel mondo sociale, la moltiplicazione e la radicale liberalizzazione (credevamo allora) dei canali televisivi. Il mondo vero certo è diventato una favola, anzi è diventato un reality, ma il risultato è il populismo mediatico, dove (purché se ne abbia il potere) si può pretendere di far credere qualsiasi cosa. Questo, purtroppo, è un fatto, anche se entrambi vorremmo che fosse una interpretazione. O sbaglio?

VATTIMO Che cos’è la "realtà" che smentisce le illusioni post-moderniste? Undici anni fa il mio aureo libretto su La società trasparente ha avuto una seconda edizione con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni. Prendevo già atto della "delusione" di cui tu parli; e riconoscevo che se non si verificava quel venir meno della perentorietà del reale che era promessa dal mondo della comunicazione e dei mass media contro la rigidità della società tradizionale, era per l’appunto a causa di una permanente resistenza della "realtà", però appunto nella forma del dominio di poteri forti – economici, mediatici, ecc. Dunque, tutta la faccenda della "smentita" delle illusioni post-moderniste è solo un affare di potere. La trasformazione post-moderna realisticamente attesa da chi guardava alle nuove possibilità tecniche non è riuscita. Da questo "fatto", pare a me, non devo imparare che il post-modernismo è una balla; ma che siamo in balia di poteri che non vogliono la trasformazione possibile. Come sperare nella trasformazione, però, se i poteri che vi si oppongono sono così forti?  >>


Caro Michele, ecco lo stato del dibattito:

-Il postmoderno ci ha emancipati dalle ultime rigidezze...
-Non è vero, il tuo pensiero debole ci ha portato solo populismo e berlusconi!
-Non è colpa mia, è che i poteri forti resistono...

Siamo ancora lì, quando uno non sa cosa rispondere invoca l'intervento metafisico del "Potere"! Il grave è che nessuno sa che rispondergli, perché nessuno, né a destra né a sinistra, s'è mai fatto un'idea di cosa sia questo "Potere".
Nessuno è interessato a capire il potere perché, in realtà, la questione spinosa è quella del proprio coinvolgimento in quel potere.
Ma non è questione filosofica, non siamo a livello di quelle sottigliezze, è solo questione di forma, di stato della popolazione: è molto debole quella gente tra cui il populismo infiamma! Il Paradigma Filosofico è tutto qui, banalmente. La miseria personale sta alla radice di un atteggiamento molto comune: se il mondo è brutto mi chiedo su chi riversare la colpa, invece di "sentirmi di merda" per la mia partecipazione a quei limiti.

Ci vogliono spalle forti e salute per sostenere quella verità. Verità che esiste ma che non è soltanto la realtà oggettiva dei fatti quanto, e qui pesantemente, la propria complicità in essi.