fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

mercoledì 27 febbraio 2013

Educazione siberiana


Per quanto riguarda la letteratura io sono fortunato. Convivo con un accanito lettore
che mi filtra i libri da leggere in base a suoi criteri di valore letterario o, più
semplicemente, in base alla semplicità del libro. Ammetto di perdermi in trame troppo
complicate, troppi personaggi mi confondono...
Comunque, qualche anno fa, evidentemente alterato, mi sporge un libro - Educazione
Siberiana, di Lilin - col seguente commento: "Non ce l'ho col ragazzino russo che lo
scrive, per sopravvivere ha diritto di fare questo ed altro, ce l'ho con la casa
editrice Einaudi che pubblica questa merda: non è un libro! nessuna apologia può fare
letteratura!"
Non contento, quando io ho finito di leggerlo lo regala al figlio di una sua amica che
studia storia all'università. Si dimentica però di discuterne con lui e, dopo qualche
tempo, la sua amica si lamenta "hai creato un mostro, mio figlio è diventato un fan di
Lilin!" E' vero, ci sono pure i fans organizzati!!!
Il secondo romanzo - Caduta libera - lo vedo girare per casa ma mi viene interdetto:
"E' peggio del primo, è un videogame, ragazzi russi che fucilano ragazzi islamici...
per 200 pagine! non sprecare una serata, visto che l'ho già fatto io!"
Ieri, accompagnando al cinema i ragazzi della comunità dove lavoro, mi passano sullo
schermo il trailer di "Educazione Siberiana" di Salvatores. Arrivo a casa e me lo
ritrovo in versione radiofonica sparato per tutto il giorno da Radio Capital... Allora
cerco Lilin su google ed eccola lì, immancabile, la recensione di Saviano su
Repubblica:





<< Lilin è un discendente degli Urka siberiani e racconta proprio di gente come lui, gli
ultimi discendenti di questa stirpe guerriera, uomini che usano definirsi "criminali
onesti" atavici nemici dei "criminali disonesti". "Volevo raccontare storie che
rischiavano di perdersi, che conoscono in pochi, e renderle storie di molti. Le storie
della mia gente, distrutta dal capitalismo di oggi, gente che aveva regole sacre, che
viveva con dei valori". Per leggere questo libro bisogna prepararsi a dimenticare le
categorie di bene e di male così come le percepiamo, lasciar perdere i sentimenti come
li abbiamo costruiti dentro la nostra anima. Bisogna star lì: leggere e basta.

Tra gli Urka non si stupra, non si fanno estorsioni, non si fa usura. Si può rapinare e
uccidere, ma solo in presenza di un valido motivo. Si può truffare, ma solo lo stato e
i ricchi. E ci sono anche regole pratiche da osservare: le armi per la caccia, per
esempio, non devono essere messe accanto alle armi che servono per uccidere esseri
umani. E quando un'arma tocca l'altra per purificarla bisogna avvolgerla in un panno
con liquido amniotico, il liquido della vita. Seppellire il tutto e dopo un po' arriva
la purificazione. È assolutamente vietato agli uomini parlare con le forze dell'ordine.
In Educazione Siberiana ci sono pagine di arresti e retate in cui la polizia non riesce
a rivolgere la parola a nessun siberiano. Ogni Urka ha sempre al proprio fianco una
donna che faccia da tramite. Nelle comunità criminali degli Urka, diversamente da
quanto accade in Italia, esistono regole talmente forti da fermare il business,
vincolare il potere.

Sono regole che seppur calate in un contesto discutibile hanno profonde radici morali.
E gli anziani nel romanzo hanno un ruolo centrale. Non sono solo i depositari delle
tradizioni, ma tramandano di generazione in generazione le storie più avvincenti di
rapine e di sfide.

Nessun urka siberiano vorrebbe essere chiamato mafioso. La mafia russa è una categoria
generica, enorme, quasi inesistente. Ci sono le famiglie di Mosca, quelle di San
Pietroburgo, la mala cecena e quella georgiana potentissima in Usa, poi ci sono le
famiglie dell'Azerbaigian. I siberiani non si riconoscono in nessuna di queste
organizzazioni, non sentono neanche di essere gang, clan o organizzazioni. Il loro
codice di vita è la loro casa. "Una volta mio nonno mi ha raccontato che fu arrestato
un pedofilo, uno di quelli a cui piacevano molto le bambine piccole e anche i bambini.
Gli Urka quando fu arrestato lo trattarono con rispetto. Andarono da lui, gli diedero
una corda fatta con le lenzuola e gli dissero: 'Hai cinque ore per impiccarti, se non
lo fai ognuno di noi prenderà un pezzo di te e lo strapperà".

L'educazione siberiana è un'educazione antica quasi sciamanica, disciplinata. Chiedo a
Nicolai della morte, che per tutto il libro è sempre vista come una compagna di vita,
come qualcosa che sta lì pronta ad aspettarti né terribile né amica. C'è e basta. "Io
ho ucciso Roberto, ho ucciso un bel po' di persone. Ma non sento dolore, o meglio sento
che ero costretto a farlo, ero un militare in Cecenia, e dovevo sparare. Ho ucciso e ho
sentito la morte tante volte vicina a me. Ma anche su questo la mia gente mi ha
insegnato a capire la morte, a conoscerla e a non sentirla come qualcosa di strano. >>

Il ragazzo guerriero della mafia siberiana
3/aprile/2009 Roberto Saviano sul sito
http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/esteri/saviano-siberia/saviano-siberia/saviano-siberia.html


Intendiamoci, non sto dicendo che l'esperienza umana del sig. Lilin non sia degna di
interesse. Qualunque esperienza umana è interessante per un altro umano. Sto dicendo
che questo libro non è letteratura, intendendo letteratura la capacità di svelarla, la
fottitura, e non di indorarla come qui si fa espressamente!
Lilin riesce a scrivere due libri senza lasciar trapelare assolutamente nulla dei suoi
bisogni sessuali, ci presenta un femminile fatto di mamme e di zie con soli tratti
positivi, e ci presenta un maschile di criminali... sì ma onesti!
Lilin come Saviano sono semplicemente ridicoli nel presentarci un'enclave di criminali
che "non parla con la polizia" e quindi, secondo loro, non corrotti dal potere...
Certo, avranno pure il vezzo di parlare con la polizia solo col tramite delle loro
donne, ma il mafioso è tale proprio perché col potere ci traffica sempre.
Anche Riina aveva la Bibbia sul comodino, ma col potere, come sappiamo bene, era bravo
a parlarci.
Chiediamoci piuttosto quali lavori sporchi hanno fatto, questi baldi "criminali onesti", per i
vari poteri che si sono susseguiti in Russia... altrimenti la loro storia non risulta
per nulla credibile.

E ora Salvatores. Di lui avevo visto il film "Mediterraneo": oscar e tripudio di lodi
per il suo gruppo di soldati italiani, sperso in un isola greca, alle prese non con la
guerra... ma con l'esistenzialismo! Mi aveva colpito la totale astrazione dalla storia,
e dunque il contributo a quello stereotipo fetente dell'italiano buono che mantiene la
sua umanità ovunque, anche in guerra. E questa è la sinistra... Chi a suo tempo ha
apprezzato quel film, ora ha il dovere di correre in libreria e leggersi "Italiani
brava gente" dello storico Angelo Del Boca, ed. Neri Pozza 2008. Si rovinerà la serata,
ma si chiama giustizia!
E in questa "Educazione Siberiana" non c'è l'esistenzialismo di "Mediterraneo", ma c'è
la violenza... e presentata come valore! Certo la sopraffazione, elemento
imprescindibile di qualsiasi enclave armata, verrà presentata con una serie di
"tradizioni" a cui il regista avrà creato un certo fascino, c'è l'usanza dei tatuaggi
presentata come sorta di sciamanesimo, e il tutto condito dalla "saggezza" degli
anziani e dall'"amore" delle donne.

In sostanza, si poteva fare un altro libro e un altro film. Si poteva raccontare la
violenza subita da un bambino che nasce in una società che non lo rispetta, perché la
fottitura finisce sempre per scaricarsi sull'ultimo della fila, perché gli consente un
solo destino, una strada obbligata in cui tutto verrà prima di lui: una tecnologia di
violenza tramandata nei secoli, la "famiglia", il ruolo di un maschile aggressivo
perché menomato del suo aspetto sociale, un femminile esacerbato che ha perso il freno
della società delle donne... Tutto passa prima di lui!
Ma in questo senso non stupisce che l'Educazione Siberiana dimentichi qualsiasi accenno
al desiderio... sostituito, semplicemente, in questa infanzia ed in questa adolescenza
deprivata, dal sadismo.
Ed il sadismo non è un fatto privato del sig. Lilin, ma pubblico, dato il successo del
libro e quello prevedibile del film, per un voyerismo che molti italiani potranno
permettersi grazie alla "raffinata" operazione culturale dei nostri intellettuali.

E se davvero, come molta gente dice su internet, l'intera operazione è una "bufala editoriale",
nulla toglie alle valutazioni di cui sopra. Il sadismo è tale anche nelle intenzioni.
Lilin, la Einaudi, Saviano e Salvatores e chissà quanti altri... associati o meno, ci dimostrano
una precisa conoscenza del fottere (i lettori), resta solo da capire se per dolo o per semplice stupidità!


lunedì 25 febbraio 2013

Saldatura ad elettrodo



In una logica di autonomia, o almeno in un periodo di crisi, viene da chiedersi che cosa posso farmi da solo?
In questi dieci anni ho avuto la fortuna di imparare a fare molte cose. Una in particolare mi ha stupito: l'uso del ferro. Non avevo mai avuto a che fare con il metallo ma gli undici serramenti della scuderia avrebbero avuto un costo insostenibile, ed allora il mio compagno ha recuperato una troncatrice che era stata di suo padre e, dopo aver comprato per 90 euro una saldatrice, mi ha fatto provare a saldare.



difetti di saldatura e una saldatura corretta



Con mia sorpresa, dopo un tot di tentativi e bestemmie, sono riuscito a "prendere la mano".
Certo ho dei limiti, sono in grado di fare un serramento o una ringhiera, ma non un portone da 4 mt perché sopra certe dimensioni bisogna avere un certo "mestiere", oppure non ci fidiamo a fare saldature sottoposte a pesanti sollecitazioni; ma i serramenti della scuderia funzionano bene e ci sono costati 50 euro l'uno e non 500!
Un catalogo di profili, che ti puoi procurare dai rivenditori di ferro, è essenziale per progettare e valutare pesi e costi. L'attrezzatura si limita al saldatore (ed il mio sottomarca da 90 euro sarà stato un azzardo ma finora ha prodotto una trentina di serramenti ed altrettanti metri di ringhiere senza mai dare problemi) e ad un flessibile/smerigliatrice (di marca, perché quello invece si logora, e può costare altrettanto). Il flessibile serve sia per tagliare che per molare e rifinire. Questo è l'essenziale, ma se uno ha da fare anche solo due o tre serramenti assieme può cominciare a convenire l'acquisto di una troncatrice (4-500 euro) che permette tagli più precisi, soprattutto quelli a 45°, e quindi poi facilita e sveltisce il lavoro di saldatura. Altro strumento utile è un trapano a colonna (è possibile fare buchi anche con quello a mano ma è difficile tenerlo sufficientemente fisso da non rovinare una punta dopo un solo buco). Sono comunque cifre che possono essere assorbite dal primo lavoro.
Non ci sono grosse controindicazioni a parte, ovviamente, l'uso della maschera. Provate a guardare una saldatura senza maschera e non vedrete la lesione che vi provocherà sulla retina, ma la sentirete con una nottata insonne a piangere: sufficiente a non farvi ripetere la stupidaggine!
Abbiamo offerto ai wwoofer di passaggio la possibilità di imparare a saldare ed abbiamo verificato come "la mano" sia un dato del tutto personale. Una signora romana, insegnante di latino al liceo, appena messa al saldatore ha prodotto di talento suo delle saldature praticamente professionali.

Qualche indicazione di massima:
- c'è un metodo abbastanza sicuro per verificare una saldatura: si piglia una mazzetta da 1/2 Kg e gli si dà sopra un paio di colpi violenti, se tiene è buona!
- non è difficile saldare pezzi un po' spessi, mentre sotto i 3mm si rischia di fare il buco invece di saldarlo, in tal caso è meglio fermarsi, pulire il pezzo dalle scorie e riprendere i bordi aggiungendo materiale con piccole saldature fino a chiudere i buco
- pulendo la saldatura con il flessibile si rischia di indebolirla. Se non ci sono problemi estetici vi conviene lasciarla intera, altrimenti ripassatela con una seconda saldatura
- di solito scaldo l'elettrodo su di un pezzo di scarto prima di iniziare una saldatura. Se nonostante questo l'elettrodo continua ad appiccicarsi o tende a fare il buco dovete regolare la corrente
- conservate gli elettrodi all'asciutto e fuori dalla portata delle capre, che amano giocarci a shangai spargendoli per tutto il cortile!

venerdì 22 febbraio 2013

La responsabilità politica di dio


Riporto i commenti al post "Non date l'8xmille ai valdesi"

"Mi sembrava che i loro progetti assistenziali, sociali e culturali fossero validi, e
piuttosto di dare soldi alla chiesa cattolica li dò a loro. La chiusura dell'Ospedale
Valdese di Torino, un punto di eccellenza pazzesco che ho potuto verificare di persona,
è una vera tragedia..."
Isabeau

"Scusa Giovanni ma trovo poco comprensibile la tua posizione: che cosa c'entra l'8x1000
ai valdesi con quel che dici?
Non mi è poi chiaro quale sarebbe il "ruolo di potere" giocato dai valdesi, perché le
tue affermazioni sono piuttosto vaghe e generaliste. Puoi essere più specifico?"
grazie e un saluto
Daniele Gardiol




Caro Daniele,

il commento di isabeau è perfetto: Vedi chi dà l'8xmille ai valdesi? Brava gente di
sinistra e progressista... che quindi è sicuramente per la giustizia e l'ecologia, ma
dall'altra "vota" i valdesi che (io dico) rappresentano un'avanguardia di quella
modernità che fa danno al pianeta e alla socialità dell'umano.
Deve chiarirsi i pensieri: o vuole veramente il bene del pianeta e allora si è
sbagliata sui valdesi, o vuole in realtà la modernità e i suoi giocattoli, e allora fa
benissimo a dare il suo appoggio ai valdesi, che però a questo punto dovremmo chiamare
complicità...
I valdesi hanno diritto di costruire Agape (un centro di ricerca religioso in prov. di
Torino, nota per i profani), sì ma solo per chiedersi come ha fatto il protestantesimo
a partorire il nazismo. Questa è l'unica domanda che ci compete come valdesi, quando un
umano realistico e deideologico fosse mai in grado di porre la domanda.
La religione è DIO... punto e basta. Nulla può mitigarla, e in questo c'è già tutto il
potere che non riesci a vedere: il potere di imporre l'irrealtà!
Ho scritto tutto un libro per dire questo, ma in questo blog ci basti sapere le
conclusioni. In questo blog si pensa che la religione tanto quanto la modernità siano
perniciose di per se stesse.
Niente di morale, per carità, basta intenderle debolezza, organica fisica, malattia,
crisi... Li conoscevo anch'io i vestiti epici dei condottieri valdesi, ne coprivo le
debolezze di un bambino allevato all'individualismo ma non mi ci sono mai
appassionato...
E' un modello di pensiero che non regge se non per autoconvinzione:
spiegatemi come gli strumenti della modernità dovrebbero riparare i danni prodotti
dalla stessa modernità;
spiegatemi come gli strumenti della religione dovrebbero riparare i danni prodotti
dalla stessa religione.

lunedì 18 febbraio 2013

Riconciliazione


Per parecchi anni non ho votato, con parecchi sensi di colpa nei confronti di una
politica che, dai tristissimi anni ottanta in poi, sembrava separarsi definitivamente
da ogni possibile partecipazione. Le esperienze dei movimenti (pacifista, ecologista,
femminista, omosessuale...) e poi quella del volontariato - che non sono la discussione
politica! - assorbivano il riflusso di quanti dalla politica si ritraevano. Certo, così
il campo era libero per i craxi e i berlusconi, quasi a dar conferma che quel
territorio era proprio infrequentabile...
Oggi penso che quella passività, o impotenza, esprimesse solo un desiderio distruttivo
ed autolesionista: lasciamo che le cose vadano in merda... così poi ricominciamo da
zero. Mi sembrava non ci fossero alternative: tra la bieca difesa dei propri interessi
e la stupida rivendicazione idealista, non c'era voto che mi rappresentasse.
Quell'insoddisfazione, o quel disagio sociale, è ciononostante motore della politica
che conosciamo: è alimento di istanze popolari, del localismo leghista come
dell'internazionalismo comunista, è l'istanza del gruppo di contro all'espressione
liberale dell'individuo.
Ma è obbligatorio che sia così? E' l'insoddisfazione l'origine della politica? Sì, ma
di questa che conosciamo, che dunque è propriamente definibile come "gestione della
debolezza".
Chi riscopre invece una dimensione costruttiva di sé, trova anche i motivi perché le
cose non precipitino, per conservare quel poco che c'è rimasto di umanità e di
territorio. Non si tratta di essere soddisfatti dello status quo (l'ingiustizia e il
disagio sociale sono dati oggettivi) ma di verificare, ogni tanto, di essere ancora
capaci di provare soddisfazione.
Ecco dunque un tentativo di leggere il piano della politica contemporanea con un
riferimento di forma dell'umano.




RICONCILIAZIONE





L’insostenibilità di questo stile di vita
è il prezzo dell’individualismo,
solo una filosofia centrata sulla forma della specie
può liberarci dal peso del nostro privilegio.



Non è un gran segno di salute stupirsi costantemente delle proprie azioni, ma è un esercizio che l’italiano non manca mai di fare: ci stupiamo della mafia e della marea montante di spazzatura, delle tangenti e di quell’inconsulto confessarsi al telefonino che contagia tutti, dal manager al delinquente comune, ci stupiamo del doping nell’atleta e del mercurio nel tonno, ci stupiamo di come Berlusconi continui a ricevere i suoi voti.
Chi comincia ad essere stufo di stupirsi può riconoscere nel multiforme malcostume italico solo gli esempi più eclatanti di uno stesso gioco del fottere. Un fottere che in realtà percorre tutto il filo della storia della civiltà ma che, per limitarci all’Italia Unita, possiamo ritrovare nello stile di casa Savoia, nell’impero coloniale e poi ancora nel ventennio fascista. Ora infine l’internazionalismo del fottere si edulcora nell’economia di mercato, regime al quale ci sentiamo costretti sapendo che in alternativa al commercio sembra esserci solo la guerra.
Oggi, ma a ben vedere è così da sessant’anni, la situazione pare cristallizzata tra due schieramenti: mezza Italia si fa vincere dal pessimismo e sceglie la fottitura espressa - e quasi rivendicata – di politici plurinquisiti, anacronismi identitari, e chiusure corporativistiche; l’altra mezza se ne lamenta come d’una zavorra perché sta invece investendo – con tutto l’incosciente ottimismo progressista – nell’internazionalizzare quella stessa fottitura.
La frattura è solo apparente, ed in quel reiterato e retorico esercizio di stupore si gioca la reale tecnologia nazionale – quella del fotto ma lo nego – dove la destra e la sinistra non possono fare a meno l’una dell’altra, pena l’insuccesso storico, già cocentemente sperimentato dai nazifascismi e dai regimi comunisti. La seconda guerra mondiale non l’hanno vinta i partigiani, in realtà, ma il Sogno che essi avevano in testa: quello stesso modello americano che tuttora continua ad aprirci la via per la modernizzazione.
In sostanza la destra ha mantenuto l’estetica di Salò -  conservata gelosamente, di padre in figlio - nei mestieri d’armi in genere, nelle tifoserie e nelle varie consorterie che ciclicamente tornano a cercare conferma dei loro piccoli privilegi. Un esistenzialismo castrato nelle aspirazioni ma ben radicato nelle piccole o grandi paure quotidiane; la rassicurante adulazione di un capo che dimostri la sua forza, o perlomeno la sua ricchezza. Il limite, evidentemente, è quella perdita di pudore nello stile di governo che –  nonostante la rapida involuzione tra un Andreotti, un Craxi e infine un Berlusconi – tutti sappiamo non poterci permettere fino in fondo, per la mancanza di quell’autocontrollo di cui dubito saremmo capaci e di cui possiamo solo ringraziare l’Europa.
Limite della sinistra, all’opposto, è una cieca fede nel Progresso. Ben attenta a mai farsi toccare dalla denuncia storica della fondamentale compartecipazione popolare all’imperialismo, non può liberarsi dalla miopia di un’ottica morale per riconoscere semplicemente la complicità intrinseca alla coppia vittima-oppressore. Così facendo, il vittimismo – lo stare dalla parte degli ultimi -  ha finito per autorizzare ogni sorta di richiesta, possibile impossibile o sconsiderata: una richiesta di modernità in cui è facile perdere la misura del reale ed ancor più facile non accorgersi di quanto si fa in fretta a passare dalla parte della vittima a quella del violentatore. Per quel che riguarda poi la sinistra antagonista - quella che si libera con internet - basti notare come si riduca, appunto, a fare il rappresentante non pagato di Bill Gates.
Che opinione possiamo avere di fronte a tale panorama? Possiamo solo constatare che, nell’orizzonte del fottere, per qualcuno che riesce a farsi male col privilegio tanti altri staranno a farsi fottere proprio per l’invidia di quello stesso privilegio; staranno al gioco, nella speranza di fottere qualcosa nel mucchio.
Demistificare la Storia significa dunque rompere con l’idea di un’evoluzione che dall’autoritarismo porta alla democrazia. E’ facile criticare l’autoritarismo, ma la democrazia rappresenta soltanto l’altra faccia del potere: quando tutti sono d’accordo a fare i ricchi… è perché hanno già trovato qualcun altro da sfruttare!
Il vicolo cieco della modernità – l’insostenibilità di uno stile di vita senza misura – richiede uno sforzo di riconciliazione forse al di là della nostra portata, ma che nondimeno rappresenta l’unica possibilità per provare seriamente a ridimensionare l’impatto ambientale della nostra specie. Tra chi rivendica il fottere e chi lo nega - nella colpevole stupidità di schierarsi sui propri viscerali turbamenti - più nessuno sembra in grado di vedere la realtà e questo, tragicamente, è  l’indiscusso nel dibattito politico: “produzione” e “redistribuzione” sono solo eufemismi che nascondono lo sfruttamento, umano ed ambientale, e la reale natura del bottino. Dare per scontato il potere è quanto rende complici destra e sinistra nella pratica dell’imperialismo.
E’ allora indispensabile indagare la natura del potere, e per farlo dobbiamo uscire dai ristretti orizzonti della rigidezza morale o dell’estetica esistenzialista, dobbiamo trovare un’alternativa ai paradigmi del moderno e del postmoderno. Solo chi è in grado di leggere la civiltà come processo di semplificazione - e riconoscere dunque la responsabilità del danno - può ammettere che il potere, banalmente, origina da una perdita di autonomia: la progressiva perdita di forma e salute libera nell’ambiente sociale una delega che qualcuno dovrà pur raccogliere, sia esso lo sciamano, il capo, il prete o l’istituzione.
Nella storia delle nazioni nasce il concetto di popolo proprio quando il popolo stesso perde la sua autonomia, quando lascia il territorio e abbandona la provincia per la città e la fabbrica, l’individualismo di massa, le istituzioni di tutela, i bisogni e gli sfizi di un soggetto ipertrofico e insoddisfabile... Un popolo, insomma, che non riesce più ad immaginare alcuna ipotesi di giustizia sociale senza crescita economica. Ritrovare una forma significa dunque non solo tornare a coltivare la nostra complessità ed in essa le capacità di autonomia, ma anche la possibilità di ritirare la nostra personale delega di potere ed immaginare l’avvio di un realistico processo di decrescita che possa riassorbire la modernità e i suoi danni.
Un paradigma di forma può essere d’indirizzo alla politica, rappresentando una sfida più che onorevole per entrambi gli schieramenti: che la sinistra si occupi di contenere le istituzioni ai minimi termini; e che la destra si rivolga concretamente, una volta tanto, a riscoprire le reali condizioni di quella potenza che tanto rimpiange e che massima può esprimersi solo nella complessità e nella salute dell’individuo. Tutti sicuramente dobbiamo rivedere l’immagine che ci siamo fatti della nostra stessa specie: non individualista, non gregaria ma soltanto, banalmente, sociale. Solo così saremo forse capaci di svestire la politica dell’indebito onòre - che da sempre la rende preda ambita d’ogni arrivismo - per riconoscerne invece tutto il  pragmatico ònere, nell’inderogabile responsabilità che abbiamo da assumere nei confronti della specie.


sabato 16 febbraio 2013

Non date l'8xmille ai valdesi!


Il "17 febbraio", lo Statuto Albertino e la festa dei Valdesi, la memoria di una lotta 
per la libertà religiosa, una tappa della faticosa costruzione di una laica 
modernità... Ecco forse le assonanze che portano molti italiani a considerare con 
fiducia e simpatia la piccola enclave protestante, e a destinare loro il contributo 
dell'8xmille. Ma se lo meritano?
Il senso di un'appartenenza religiosa si trova probabilmente più nei riti famigliari e 
nella dimensione domestico-affettiva di un bambino che nei precetti di una teologia.
Ed un grande falò che brucia nella notte con tanta gente riunita attorno che canta 
l'epica di una storia plurisecolare...  non può che toccare le corde sensibili di un 
bambino.




Quando poi, a diciassette anni, tua madre ti prende a parte per il classico "discorso
serio" che sancisce il momento dell'iniziazione alla vita adulta, si chiude il cerchio
di una formazione personale. Nel mondo valdese il battesimo non viene imposto al
neonato inconsapevole, preferendo che sia l'adulto ad esprimere la scelta di
un'adesione religiosa: "io personalmente non sono credente - mi dice allora mia madre -
e tuo padre non so, non ne abbiamo mai parlato, ci sembra però importante conservare la
memoria storica ed il portato culturale di un'esperienza di minoranza..."
Ringraziando la liberalità, all'epoca scelsi di non aderire alla mia comunità religiosa
salvo poi riconoscermi addosso, negli anni a venire, tutti i limiti del portato
sostanziale della cultura protestante: un assetto radicalmente individualista e
l'abitudine a leggersi, muoversi e spargere i propri danni in una dimensione non meno
che internazionalista!

I valdesi nascono nel 1200 dalla predicazione di Pietro Valdo, commerciante di Lione
che, anticipando Lutero di tre secoli, concepisce e diffonde il posizionamento  che
diventerà caratterizzante di tutto il protestantesimo: il rapporto diretto tra
l'individuo e dio.
La traduzione delle sacre scritture e la loro divulgazione occupano la prima parte
della storia del movimento. Il tentativo di mantenersi all'interno della chiesa
cattolica ed il ruolo di barriera alle concezioni dualistiche dei catari, saranno i
primi esercizi di quell'internazionalismo che caratterizzerà il movimento nei secoli a
venire...
Purtroppo manca completamente una storia realistica di questa funzione di potere della
chiesa valdese. La storiografia ufficiale registra una storia parziale, tutta centrata
sulla persecuzione e che rimuove totalmente il ruolo svolto dai valdesi nella gestione
del potere.
Le stragi di questa storia ci sono state tutte, non sono certo invenzioni: i valdesi in
otto secoli hanno accumulato più martiri di quanti sono oggi. Ma se sono sopravvissuti
non è tanto per una loro straordinaria capacità di resistenza, quanto per il ruolo
variamente giocato a livello internazionale.
Una storia che non analizza le complicità ha lo spessore di una favola, e la mia
opinione è che le favole non fanno bene ai bambini, e neppure agli adulti.
Una funzione di manovalanza militare, l'istituzione di un addestramento militare della
gioventù, le prove di tiro del "taulass"... non servono solo per l'autodifesa ma sono
fattori che, uniti alla scolarizzazione, alla conoscenza delle lingue e ad un
atteggiamento mentale improntato al rigore e alla razionalità, hanno permesso ai
valdesi di ricoprire il loro ruolo nei giochi bellici e politici dell'europa in
formazione. Ad esempio ci sono anche i valdesi a combattere la celebre battaglia
dell'Assietta, cioè la difesa del piemonte dall'invasione francese del 1747. Le
carriere militari, come poi quelle nelle università e nelle istituzioni, hanno
consentito al piccolo popolo valdese un saldo radicamento nei centri del potere.

Il rapporto diretto con dio e l'emancipazione dalla mediazione della chiesa, gli
elementi essenziali del protestantesimo, possono sembrarci una conquista di libertà e
progresso... in queste terre cattoliche e papiste.
E invece non si tratta di quella libera comprensione della realtà che potremmo
immaginare come caratteristica di un umano completo e complesso. Non c'è la realtà
nell'orizzonte protestante, c'è sempre dio, e la gestione personale di quel rapporto è
solo un modo "tecnologico" di togliere qualunque importanza al "branco", alla specie e
alla essenziale socialità dell'umano.
La chiesa valdese è solo la strana contraddizione di una comunità di individualisti!

martedì 12 febbraio 2013

Vivere di guerra


"Ciò che Blerime doveva fare, come ogni donna, era proteggere l'uomo. Lei era la 
custode della vita di Fatmir, lui era l'uomo per il fucile, l'erede, la speranza."

"Che fai adesso Valmir, amore? Sei contento di tutto questo? Ajkana l'ha amato da 
sempre, da prima ancora di conoscerlo. E' una donna dei Balcani, ama in maniera troppo 
integrale, quasi distruttiva."

Elvira Dones, "Piccola guerra perfetta", Einaudi 2011

- Siamo nel 1999, in Kosovo, da una parte i serbi di Milosevic che puntano alla pulizia etnica, dall'altra parte i kosovari di Rugova con le azioni non violente ma anche i terroristi dell'uck. L'intervento delle forze Nato non impedisce il massacro locale: 13000 vittime in tre mesi di conflitto. La pace raggiunta, oggi è di nuovo in discussione; la regione è un porto franco dominato dai clan, dai trafficanti di droga e di armi; un angolo di europa dove il turismo è interdetto.



L'inquinamento come la guerra sono responsabilità di un corpo sociale complessivo,
fatto di uomini e donne e dei loro rapporti.
Quando le etnie si incontrano è venuto meno, per ragioni geografiche evidenti, il
fattore ambientale che le ha conformate e l'unico legittimo a giustificarle.
Fuori dal contesto ambientale originario, un'etnia migrante ha un unico compito:
maturare in fretta in necessario lutto per le terre abbandonate e per i motivi di tale
decisione, e dissolversi tra le popolazioni che l'hanno accolta per acquisire la nuova
forma locale. L'ospite dal canto suo raccoglie una ricchezza: la possibilità di
rinsanguarsi con esperienze diverse dalla propria.
La percentuale dei matrimoni misti in un fenomeno migratorio è indicativo della
propensione di un certo gruppo ad integrarsi o a conservare la propria "tecnologia"
nel nuovo contesto. La poca propensione delle donne in particolare segnala una forte
etnicità. Questa è basata sulla forza del legame famigliare e quindi sul tipo di
relazione fra donne e uomini di quell'etnia.
Negli esempi citati vediamo la forma d'amore possibile nei Balcani, ma che forse è la
stessa "passionalità" che troviamo in posti come l'Afganistan o la Palestina.
Quando una crisi di qualsiasi natura leva altre ragion d'essere, resta in gioco solo
l'etnicità: le donne ribadiscono la loro centralità e "tirano acqua al loro mulino",
alla propria famiglia, al proprio clan... e i maschi fanno il macello! E si scopre che
si può vivere di guerra, di uno stato perennemente conflittuale, di aiuti
internazionali e di soldi sporchi, di armi e di droga. L'alternanza di governo diventa
una successione di reciproci genocidi. La moria di bambini è il tragico ma inevitabile
risultato di quel gioco tra il maschile e il femminile, quel gioco che i bambini
avrebbe dovuto farli. Quando il familismo vince, soffoca la prole. La struttura
sociale dovrebbe essere strumentale a produrre individui, non a soverchiarli!
Nella prefazione di questo piccolo libro, che è sicuramente un lavoro ben fatto e
riuscito, Roberto Saviano non ha saputo cogliere il pregio che pure aveva sotto gli
occhi: efficacemente descritta è quella "passionalità" esasperata, estrema e forse
infine retorica che ingenera la guerra e l'alimenta. Ma d'altronde era quanto era
riuscito a fare anche col suo Gomorra: descrivere l'orrore dei risultati, incapace di
vedere le forme del desiderio che li producono.
Nel fare un monumento all'urlo della vittima, la si uccide due volte: per quanto
doloroso sia affermarlo, lo strazio umano può trovare risposta solo nel
ricongiungimento dialettico col suo carnefice.

venerdì 8 febbraio 2013

Architettura ormonale


Potrebbe essere interessante chiedere a cento architetti neolaureati qual'è, a loro
avviso, lo spazio abitabile necessario all'italiano medio.
Posso immaginare che diversi si farebbero lo scrupolo di stabilire una soglia... anche
se, probabilmente, ben maggiore degli 8mq procapite stabiliti dalle organizzazioni
internazionali per la ricostruzione dell'afganistan; posso immaginare che altri invece
considerino ragionevole la formula "più soldi, più spazio"... tendente ad infinito! Ho
l'impressione però che tutti e cento considererebbero sempre lo spazio come "positivo":
spazio per l'espressione umana, dove è la distanza dall'altro che permette la crescita
personale.
Mi passa la serata nel cercare su google concezioni diverse di spazialità in altre
culture. Vi offro il raccolto.
Cominciamo con l'oriente e con la cultura Moso, una minoranza etnica dell'ovest della
Cina.
<< L'istituzione del matrimonio per loro non esiste, la famiglia è concepita in modo
totalmente diverso dal nostro, è costituita dai discendenti del ramo materno
appartenenti ai due sessi, solo questi sono considerati consanguinei, mentre il padre
naturale dei bambini appartenenti alla famiglia materna ne è escluso. Il contatto con
l'altro sesso non manca, anzi, ma è per questo più armonioso. A tredici anni le ragazze
hanno il rito di passaggio e in quell'occasione viene data loro la chiave di una
propria stanza chiamata 'la stanza dei fiori' dove potranno avere incontri amorosi, non
necessariamente sessuali, quando lo riterranno opportuno, in genere a partire dai
quindici anni in poi. Gli incontri avvengono di sera e di notte e al mattino ci si
saluta per vedersi la sera dopo. Se le cose vanno bene può andare avanti così tutta la
vita, se no ci si lascia senza tragedie. La gelosia è considerata una cosa di cui
vergognarsi, molto più dell'infedeltà. >> (da una presentazione dell'autrice di “Benvenuti nel paese delle donne”, Francesca Rosati Freeman - XLedizioni, 2010)
Ecco che si apre uno spiraglio a relativizzare la nostra abituale concezione dello
spazio, una concezione puramente quantitativa e limitata perché riferita ad un corpo
astratto dal desiderio, senza età e senza ormoni. Non è così ovunque: come abbiamo
visto, le donne Moso alla pubertà ricevono una stanza che permette loro di relazionare
con uomini che non alleveranno i loro figli, gestiti invece dalla madre e dai suoi
fratelli. Vi sembra una stanza come le altre?
E in Africa, vi sembra una casa come le altre quella costruita dagli anziani Masai, una
casa che ospiterà per sei mesi i ragazzi di ambo i sessi ed i loro esperimenti di
relazione durante il rito di passaggio all'età adulta?



Il concetto di nido, nel mondo animale, non coincide con quello di residenza. Il nido è
per la prole, è costruito per un certo momento dello sviluppo, e verrà rifatto ad ogni
stagione. Un nido tra i rami è a tutti gli effetti un esempio di "architettura
ormonale".
Le nostre case invece sono proprietà immobiliari, patrimoni di famiglia. Rispondono
principalmente ad una funzione di capitalizzazione, servono a darci un vestito
identitario e sicuramente non sono uno spazio relativo al nostro corpo nelle sue
diverse età.
I bambini hanno l'esigenza di far gruppo e vivere in una dimensione collettiva. Ma
nell'umano, purtroppo, non è la cucciolata che decide il suo spazio. Un bambino potrà
sperimentare la socialità all'asilo ma non nella quotidianità del suo branco, e come
riconoscimento non del suo bisogno ma di quello dell'adulto: socializzato per
consentire ai genitori di andare a lavorare...
E poi il bambino cresce. La "cameretta" dell'adolescente può perdurare in Italia fino a
che "l'adolescente" non ha quarant'anni e oltre... invalidando così il campo
relazionale di un soggetto che non vive, di fatto, ma soltanto falsifica un'autonomia.
E ancora, per la vecchiaia non è prevista alcuna fisiologica riduzione dello spazio. Si
verifica piuttosto un "colonialismo" a casa propria, dove il badante extracomunitario
abbandona il suo branco per garantire a noi la falsificazione di una famiglia!
Questa è l'esperienza dello spazio che può avere la modernità!
Possiamo immaginare uno spazio di altra natura? Certo, ma non possiamo partire
dalla famiglia, dobbiamo partire dal nostro corpo e seguirlo nel suo sviluppo.
Nel periodo dell'allattamento lo spazio non ha da esserci, latte e identità sono la
stessa cosa per un neonato: "essere e tetta" coincidono.
Nell'infanzia invece, trovarsi soli faccia a faccia con i genitori non può che essere
vissuto come deprivazione. Lo scrittore africano Sowinka, in "Infanzia", racconta della
vicina di casa come della vera mamma: si erano trovati e si erano piaciuti. Un bambino
non ha mai troppo affetto... non avete mai provato a giocare con una cucciolata di
cani?
E ancora la pubertà, che deve essere sancita da uno spazio personale strutturato per la
completa autonomia: letto, bagno, angolo cottura. Venti metri quadri autogestiti, per
un individuo nei suoi esperimenti di relazione. E se quella stanza è troppo onerosa per
i genitori...? Ci si dovrebbe chiedere allora perché nella nostra cultura non siamo in
grado far coincidere pubertà ed autonomia, ma questo è un altro discorso.
Possiamo dunque immaginare adulti non edipici che offrano spazi sociali per i bambini e
spazi di autonomia per gli adolescenti, il tutto bilanciato dalla riduzione
all'essenziale dello spazio per i vecchi. Cosa resta da computare?
Sorprendentemente, non resta nulla. L'uomo adulto va riconosciuto per quello che è: un
adolescente che va perdendo i pezzi... e che non ha ancora acquisito l'esperienza
dell'anziano! La costruzione sociale dell'importanza dell'uomo adulto è un tratto
antivitale della nostra cultura.
Se le fasi d'età vengono rispettate e viene loro riconosciuta l'esigenza di spazi
dedicati e specifici, allora lo spazio dell'adulto, la dimensione della coppia o della
famiglia, si rivela essere una questione puramente identitaria: spazio dimostrativo e
non creativo.
Pensate al disomogeneo, personalistico e ipertrofico panorama di villette italiche e
confrontatelo, per esempio, con la società giapponese ed i suoi canoni abitativi. Non è
un caso se in Giappone, dove l'adulto è scarsamente considerato rispetto al bambino o
all'anziano, la dimensione delle abitazioni è minima, almeno rispetto ai nostri
standard, tanto da immaginare con difficoltà di poterci vivere dentro...

lunedì 4 febbraio 2013

Valeriana

 

Valeriana, la prima cosa da mettere in un orto. Anche se il vostro orto è microscopico, un piccolo lotto di valeriana avrà il suo senso.
E' buona e tendenzialmente piace a tutti. Se ne vede così poca solo perché è noiosa da raccogliere e pulire. Per ovviare a queste noie basta seminarla in uno strato superficiale di sabbia che faciliterà raccolta e mondatura.



Siamo reduci da un lotto di valeriana seminata ad ottobre e cresciuta in serra tutto l'inverno. L'abbiamo sempre apprezzata per la capacità di sveltire il transito intestinale: quella è fibra sul serio, non i pacchettini di crusca del negozio bio. Una giornata che inizia con una buona cagata... è già una giornata più allegra.
Solo un uso costante, e se vogliamo esagerato, ci ha fatto prendere coscienza degli alcaloidi della valeriana. In particolare un giorno, io e il mio compagno, dopo un'abbondante dose a pranzo, siamo riusciti a prolungare un riposino fino alle cinque del pomeriggio. Questo fatto, unito alle teorie di un mio conoscente, che con alti dosaggi di valeriana sosteneva di amplificare gli effetti della marjuana, mi ha indotto a cercare su internet connessioni tra valeriana e psicofarmaci. E in effetti non ho avuto difficoltà a trovare indicazioni delle interazioni tra le sostanze della valeriana e la farmacopea neurologica tanto cara agli italiani. Quella del nostro orto non ha sicuramente le concentrazioni di quella che si usa in erboristeria, la verietà officinale, ma neppure stiamo parlando di quella già pronta e lavata del supermercato, che è comunque buona per l'intestino.
Blandi alcaloidi dall'effetto rasserenante, e pure legali, un tonico per l'intestino, una coltura facile da seminare anche sotto le rose delle aiuole... il momento è questo! Perché privarci della valeriana?


venerdì 1 febbraio 2013

Piccola storia della fottitura


Tu hai il granaio pieno, e io te lo fotto!
Poi, dopo la primarietà del cibo, si può passare all'estorcere materie prime, da un
paese o da un intero continente.
Ma le materie prime vanno trasformate, e allora si possono fottere gli operai. Siamo
alla produzione capitalistica, siamo alla modernità.



E' vero, nel capitalismo si fotte la forza lavoro ma, tra l'altro, per produrre cose
che si comprerà la stessa forza lavoro... che così sarà fottuta due volte.
Questo l'assetto della modernità, un panorama che la lotta di classe ed il marxismo
sembravano aver inquadrato bene, così da poter pensare di avere voce in capitolo e fare
le proprie richieste sindacali.
Ma il sindacato e le giuste rivendicazioni sembrano essere evaporate da un momento
all'altro, come dissolte dall'apparire sulla scena di un nuovo fenomeno, inatteso:
il capitalismo finanziario, la gestione di una ricchezza disincarnata e telematica,
azioni di borsa e oscuri manovratori...
La lotta di classe è finita, e non perché l'operaio si è trasformato in qualcos'altro,
ma perché disoccupato. E non è questione di tornare in fabbrica, perché le fabbriche
non ci sono più, la produzione è stata dislocata in qualche altro angolo del mondo,
a qualcun'altro disponibile a farsi fottere nei modi che a noi non stavano più bene.
E qui i soldi non si vedono più, sono diventati virtuali come l'origine dei beni di cui
però non possiamo più fare a meno: la fabbrica quotata in borsa è stata sopravanzata
dalle azioni della borsa stessa.
Il capitalismo è diventato finanziario ed il marxista, o chi per lui, non ha più
nessuno da combattere, solo entità oscure e sfuggenti, transnazionali e fuori da ogni
tipo di legislazione...
Ma solo gli stupidi possono stupirsi della cosa. Il capitalismo, quello della fabbrica
imponente e dei mezzi di produzione, le presse e le fonderie, erano solo uno strumento
e non il fine. I veri ricchi sono quelli che hanno saputo riciclarsi, e se l'Italia
è stata carente di una classe borghese, nella sua storia "al seguito" dell'occidente
industrializzato, oggi è tardi per correre ai ripari. Non è più questione di
modernizzarsi dotandosi di una vera cultura borghese, oggi i veri ricchi sono quelli
che manovrano i soldi e non hanno più alcun contatto con le "masse proletarie"
(il ceto medio, la gente del posto dove vivono) né, probabilmente, con gli esponenti di
una borghesia che va estinguendosi.
Ma il fottere, che è il vero obiettivo, resta confermato: oggi il top del fottere
è la finanza, e chi si stupisce è out!
L'unica autocritica possibile alla sinistra è ammettere di aver ipostatizzato la
fabbrica, senza rendersi conto della propria complicità: è l'operaio, è il popolo
stesso nel suo complesso che vuole fottere un mondo precedente, precedente in senso
logico ed in senso economico. Le masse dei paesi industrializzati fottono quelle dei
paesi basati sull'agricoltura o sull'estrazione di materie prime, ed ora i finanzieri
fottono il mondo della produzione capitalistica, fottono le fabbriche vere, quelle con
gli strumenti e gli operai.
Nulla di nuovo sotto il sole. Come sempre, non si può costruire autonomia senza capire
la dipendenza, e la dipendenza, in questo caso, è la propria partecipazione ad una
grande semplificazione come quella del fottere. E non possiamo evitare di farci fottere
se non siamo in grado di vedere chi stiamo a nostra volta fottendo.
Fottere è sinonimo di semplificare: ho fame e rubo il tuo piuttosto che darmi da fare
a procurarmi qualcosa. Banale maleducazione ma che, se lasciata passare, trasforma il
villaggio ancestrale in un istante (la Storia) sufficiente ad arrivare a piè pari
all'oggi dell'alta finanza.