fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

domenica 11 novembre 2012

Convegno contadino


Ieri sera ho partecipato a Torino ad un convegno sulla realtà dell'agricoltura non
industriale (http://coordinamentocontadinopiemontese.noblogs.org/ )
Ringraziando gli organizzatori per la bella occasione di conoscere altre esperienze
locali di insediamento, agricoltura ed attività legate al territorio, vorrei qui
offrire agli amici che ho incontrato alcuni spunti di riflessione.






Autoproduzione o vendita?

Sono sicuro che persino il più incallito dei raccoglitori, capace di sopravvivere da
solo nel profondo di qualche foresta, apprezza l'offerta delle diverse competenze e
vocazioni che può trovare negli altri del suo gruppo.
L'autoproduzione ha un senso sociale: un gruppo in formazione, nel nostro contesto di
provincia postindustriale, teso quindi a riaquisire quell'autonomia ecologica che è la
cultura del raccoglitore, può permettersi l'onere del cercare e sperimentare tecniche
ragionevoli di autoproduzione solo se è in grado di associare realmente competenze e
vocazioni diverse di più persone.
Banalizzando, non ha senso che ti autoproduci il sapone se sei da solo, corri a ruscare
piuttosto e spera di far stare tutte le tue esigenze nel magro stipendio che riuscirai
a tirar su!
Perché non si riduca ad un semplice hobby l'autoproduzione deve partire dalle cose
essenziali: dall'orto e non dal sapone quindi e, pensando all'agricoltura, sicuramente
dal cereale prima ancora che dall'orto.


Produttività

Mettiamo ora che questa ipotetica neoformazione sociale sia riuscita ad organizzarsi la
completa autoproduzione alimentare e proviamo a valutarla in relazione al tenore di
vita.
Dalle nostre parti si vive con 1000-1500 euro al mese. Consideriamo pure che il vivere
associati riduca le spese a 7-800 euro. Facendo il conto che in 100 euro/mese ci sta
una ragionevole alimentazione a cereali e legumi, la nostra autoproduzione avrà coperto
solo 1/7 delle nostre necessità. Quanto tempo ci ha impegnato? Riusciremmo a farne
sette volte tanto?
Se la risposta è no allora forse vuol dire che il modo di produrre è ancora inadeguato
e/o il nostro stile di vita è troppo oneroso: imperialista o handicappato, per volontà
edonista o per limiti di salute, in ogni caso qualcosa che costa più di quel che
frutta.
Non voglio essere depressivo per chi ci vuole provare, penso solo che forse dovremmo
considerare separatamente i campi: chiedere all'autoproduzione di coprire  le necessità
di base (l'insediamento, la legna per la stufa, il cibo...) e rassegnarci a monetarizzare
il resto "in attesa di tempi migliori".


Territorialismo

Vivere sul territorio e cavarci il proprio sostentamento mi sembra un ragionevole
principio: chi e a fronte di quali giustificazioni dovrebbe ritenersi esentato?
Sacrosanto principio ma sacrificato, purtroppo, su due fronti. Da un lato soffocato da
un mondo contadino che a qualcuno dovrà pur vendere i suoi prodotti, e non può quindi
manifestare ad esempio contro i danni dell'urbanizzazione con slogan del tipo "niente
cibo a chi non si vuol sporcare le mani..."
Dall'altro esaltato da un certo ambiente alternativo che rischia di farne una nuova
immagine di sé, un nuovo "dover essere" del tutto irrealistico rispetto alle effettive
capacità fisiche e psichiche indispensabili a vivere territorializzati.
"Posso parlare di ecologia con chi mi presenta i catastali dei suoi terreni", questo
continua a sembrarmi un ragionevole discrimine per non perdere il contatto con la
realtà. L'acquisto di un pezzo di terra non mi sembra una vile compromissione col
diritto di proprietà, leggetela piuttosto come la tassa necessaria per sottrarre una
porzione di pianeta alla bieca logica mercantile...


Decrescita come despecializzazione

Quand'anche fossimo riusciti a toglierle quel sentore di "etica triste della rinuncia"
di cui ho parlato altrove, la bandiera della decrescita nasconde un altro limite: il
tecnicismo che presumiamo indispensabile per attuarla!
Dipende dall'immagine che ci siamo fatti dell'umano: l'ecologia sarà (forse) una nuova
capacità faticosamente raggiunta dal progresso della specie? oppure sarà semplicemente
il riprendersi da una temporanea perdita di coscienza (la civiltà storica, dal
neolitico ad oggi) ed il ritrovare la forma e la fisiologia cui abbiamo fatto
affidamento nei nostri primi novantamila anni di vita?
Oggi le informazioni tecniche specialistiche in ogni campo tentano di supplire al
deficit cognitivo cui ci ha condotti la civilizzazione, e possono forse aiutarci a
superare l'impasse, ma non sono la soluzione.
L'obiettivo io credo sia quello di riaquisire una complessità interna alle nostre
persone, la salute e la serenità sufficienti a ad operare scelte "istintuali" azzeccate
ed efficienti.
Forse dovremmo smettere di dar valore alla conoscenza in quanto tale, e cominciare a
riferirla al benessere della specie. E' prioritario, per fare un esempio, adottare
quotidianamente il criterio di integrare la dieta con un assortimento di miso, alghe,
ortiche o quant'altro... piuttosto che impararsi a memoria i microelementi di cui
abbiamo bisogno. La biochimica ci ha aiutato ad uscire dal buco culturale in cui ci
eravamo messi ma poi, quando avessimo riaquisito una pratica istintuale, lo
specialismo tornerebbe ad essere secondario ed eventuale.
Così forse l'università e le istituzioni dovrebbero considerare il loro ruolo in un
processo di decrescita. Luogo di ricerca e formazione, certo, anche nel campo delle
nuove tecniche meno invasive che ci servono oggi, ma solo a patto di assumersi
pienamente la responsabilità dei limiti e degli effetti collaterali insiti nel suo
specialismo.
Mi torna sempre in mente un manualetto edagricole anni '70 dove un professorone
sicuramente titolato indicava il cherosene per diserbare i finocchi, o i copertoni di
automobile per crescere meglio l'insalata sotto al sole... E' l'università che deve
spiegarmi come si può arrivare a tanto partendo solo da un po' di bonario
positivismo...


Agricoltura o allevamento?

E da ultimo, purtroppo, la nota dolente sempre all'ordine del giorno negli "incontri
agresti": il confronto tra agricoltori e pastori!
Che senso ha parlare in contesto ecologico di utilizzo del territorio quando non siamo
in grado di valutare criticamente il nostro prodotto?
Che senso ha cercare modi alternativi di produzione e commercializzazione di alimenti
che possono non essere ecologici per l'umano?
Se ci precludiamo questa valutazione ci precludiamo la possibilità di costruire
quell'alternativa culturale dove i nostri prodotti dovrebbero ritornare ad essere
"normali". Perché richiedere una specifica produzione biologica invece di pretendere
semplicemente che ciò che viene chiamato alimento e commercializzato non sia una merda?
Mi sembra che rinunciare al confronto sul portato culturale e materiale di scelte
fondamentali come quella tra agricoltura e pastorizia, abbia solo l'effetto di
depotenziare: depotenziare tutto, l'incisività politica come l'interesse di mercato.
Probabilmente ci converrebbe distinguere tra una logica d'impresa, dove l'attivismo
produttivo ha il limite di non riuscire ad essere critico sul proprio prodotto, ed una
logica di valutazione ed orientamento culturale che ha invece bisogno di allargare lo
sguardo oltre il problema contingente della fattibilità.
Distinguere, ma riconoscendo una fondamentale asimmetria: prima, ovviamente, si cerca
di capire di cosa abbiamo bisogno e poi si trova il modo migliore di produrlo.
Dovremmo avere il coraggio di coniare un nuovo slogan:

Coltiviamo i campi... ma limitiamoci ad allevare noi stessi!

Ciao a tutti

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