Scegliere tra il gusto e l’effetto, o meglio, scegliere quale priorità
dare.
Oggi è il gusto che tira. Il gusto sopra ogni ragionevolezza, prima di
qualsiasi segnale del nostro corpo. C’è chi non smette di mangiare il
parmigiano finché non è riuscito a sfondarsi le emorroidi, o chi aspetta la
cirrosi o un infarto per smettere di bere. Questo vuol dire che proprio solo la
malattia conclamata, e spesso neanche quella, frena un poco la corsa
autolesionista della modernità.
E così una scelta, prettamente individuale ed edonista come quella del
gusto, ci rende collettivamente complici dell’industria del danno, che sia il
vino, l’olio o la vacca ed i suoi derivati. Estimatori del gusto, produttori,
dottori e scienziati, tutti presi in un gran carosello commerciale
autogiustificazionista.
Invertiamo i termini, prima scegliamo gli alimenti che ci procurano la
salute, quelli etici, quelli che ci sembra ragionevole produrre. Poi il gusto
viene da solo, come piacevole esercizio, qui allora anche istintuale, di
ricerca di equilibrio ed efficienza.
Abbiamo bisogno urgente di ridefinire la cura della salute e della
complessità della specie, e distinguerla chiaramente dal campo del fottere a
dai suoi frutti tentatori.
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