fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

lunedì 18 febbraio 2013

Riconciliazione


Per parecchi anni non ho votato, con parecchi sensi di colpa nei confronti di una
politica che, dai tristissimi anni ottanta in poi, sembrava separarsi definitivamente
da ogni possibile partecipazione. Le esperienze dei movimenti (pacifista, ecologista,
femminista, omosessuale...) e poi quella del volontariato - che non sono la discussione
politica! - assorbivano il riflusso di quanti dalla politica si ritraevano. Certo, così
il campo era libero per i craxi e i berlusconi, quasi a dar conferma che quel
territorio era proprio infrequentabile...
Oggi penso che quella passività, o impotenza, esprimesse solo un desiderio distruttivo
ed autolesionista: lasciamo che le cose vadano in merda... così poi ricominciamo da
zero. Mi sembrava non ci fossero alternative: tra la bieca difesa dei propri interessi
e la stupida rivendicazione idealista, non c'era voto che mi rappresentasse.
Quell'insoddisfazione, o quel disagio sociale, è ciononostante motore della politica
che conosciamo: è alimento di istanze popolari, del localismo leghista come
dell'internazionalismo comunista, è l'istanza del gruppo di contro all'espressione
liberale dell'individuo.
Ma è obbligatorio che sia così? E' l'insoddisfazione l'origine della politica? Sì, ma
di questa che conosciamo, che dunque è propriamente definibile come "gestione della
debolezza".
Chi riscopre invece una dimensione costruttiva di sé, trova anche i motivi perché le
cose non precipitino, per conservare quel poco che c'è rimasto di umanità e di
territorio. Non si tratta di essere soddisfatti dello status quo (l'ingiustizia e il
disagio sociale sono dati oggettivi) ma di verificare, ogni tanto, di essere ancora
capaci di provare soddisfazione.
Ecco dunque un tentativo di leggere il piano della politica contemporanea con un
riferimento di forma dell'umano.




RICONCILIAZIONE





L’insostenibilità di questo stile di vita
è il prezzo dell’individualismo,
solo una filosofia centrata sulla forma della specie
può liberarci dal peso del nostro privilegio.



Non è un gran segno di salute stupirsi costantemente delle proprie azioni, ma è un esercizio che l’italiano non manca mai di fare: ci stupiamo della mafia e della marea montante di spazzatura, delle tangenti e di quell’inconsulto confessarsi al telefonino che contagia tutti, dal manager al delinquente comune, ci stupiamo del doping nell’atleta e del mercurio nel tonno, ci stupiamo di come Berlusconi continui a ricevere i suoi voti.
Chi comincia ad essere stufo di stupirsi può riconoscere nel multiforme malcostume italico solo gli esempi più eclatanti di uno stesso gioco del fottere. Un fottere che in realtà percorre tutto il filo della storia della civiltà ma che, per limitarci all’Italia Unita, possiamo ritrovare nello stile di casa Savoia, nell’impero coloniale e poi ancora nel ventennio fascista. Ora infine l’internazionalismo del fottere si edulcora nell’economia di mercato, regime al quale ci sentiamo costretti sapendo che in alternativa al commercio sembra esserci solo la guerra.
Oggi, ma a ben vedere è così da sessant’anni, la situazione pare cristallizzata tra due schieramenti: mezza Italia si fa vincere dal pessimismo e sceglie la fottitura espressa - e quasi rivendicata – di politici plurinquisiti, anacronismi identitari, e chiusure corporativistiche; l’altra mezza se ne lamenta come d’una zavorra perché sta invece investendo – con tutto l’incosciente ottimismo progressista – nell’internazionalizzare quella stessa fottitura.
La frattura è solo apparente, ed in quel reiterato e retorico esercizio di stupore si gioca la reale tecnologia nazionale – quella del fotto ma lo nego – dove la destra e la sinistra non possono fare a meno l’una dell’altra, pena l’insuccesso storico, già cocentemente sperimentato dai nazifascismi e dai regimi comunisti. La seconda guerra mondiale non l’hanno vinta i partigiani, in realtà, ma il Sogno che essi avevano in testa: quello stesso modello americano che tuttora continua ad aprirci la via per la modernizzazione.
In sostanza la destra ha mantenuto l’estetica di Salò -  conservata gelosamente, di padre in figlio - nei mestieri d’armi in genere, nelle tifoserie e nelle varie consorterie che ciclicamente tornano a cercare conferma dei loro piccoli privilegi. Un esistenzialismo castrato nelle aspirazioni ma ben radicato nelle piccole o grandi paure quotidiane; la rassicurante adulazione di un capo che dimostri la sua forza, o perlomeno la sua ricchezza. Il limite, evidentemente, è quella perdita di pudore nello stile di governo che –  nonostante la rapida involuzione tra un Andreotti, un Craxi e infine un Berlusconi – tutti sappiamo non poterci permettere fino in fondo, per la mancanza di quell’autocontrollo di cui dubito saremmo capaci e di cui possiamo solo ringraziare l’Europa.
Limite della sinistra, all’opposto, è una cieca fede nel Progresso. Ben attenta a mai farsi toccare dalla denuncia storica della fondamentale compartecipazione popolare all’imperialismo, non può liberarsi dalla miopia di un’ottica morale per riconoscere semplicemente la complicità intrinseca alla coppia vittima-oppressore. Così facendo, il vittimismo – lo stare dalla parte degli ultimi -  ha finito per autorizzare ogni sorta di richiesta, possibile impossibile o sconsiderata: una richiesta di modernità in cui è facile perdere la misura del reale ed ancor più facile non accorgersi di quanto si fa in fretta a passare dalla parte della vittima a quella del violentatore. Per quel che riguarda poi la sinistra antagonista - quella che si libera con internet - basti notare come si riduca, appunto, a fare il rappresentante non pagato di Bill Gates.
Che opinione possiamo avere di fronte a tale panorama? Possiamo solo constatare che, nell’orizzonte del fottere, per qualcuno che riesce a farsi male col privilegio tanti altri staranno a farsi fottere proprio per l’invidia di quello stesso privilegio; staranno al gioco, nella speranza di fottere qualcosa nel mucchio.
Demistificare la Storia significa dunque rompere con l’idea di un’evoluzione che dall’autoritarismo porta alla democrazia. E’ facile criticare l’autoritarismo, ma la democrazia rappresenta soltanto l’altra faccia del potere: quando tutti sono d’accordo a fare i ricchi… è perché hanno già trovato qualcun altro da sfruttare!
Il vicolo cieco della modernità – l’insostenibilità di uno stile di vita senza misura – richiede uno sforzo di riconciliazione forse al di là della nostra portata, ma che nondimeno rappresenta l’unica possibilità per provare seriamente a ridimensionare l’impatto ambientale della nostra specie. Tra chi rivendica il fottere e chi lo nega - nella colpevole stupidità di schierarsi sui propri viscerali turbamenti - più nessuno sembra in grado di vedere la realtà e questo, tragicamente, è  l’indiscusso nel dibattito politico: “produzione” e “redistribuzione” sono solo eufemismi che nascondono lo sfruttamento, umano ed ambientale, e la reale natura del bottino. Dare per scontato il potere è quanto rende complici destra e sinistra nella pratica dell’imperialismo.
E’ allora indispensabile indagare la natura del potere, e per farlo dobbiamo uscire dai ristretti orizzonti della rigidezza morale o dell’estetica esistenzialista, dobbiamo trovare un’alternativa ai paradigmi del moderno e del postmoderno. Solo chi è in grado di leggere la civiltà come processo di semplificazione - e riconoscere dunque la responsabilità del danno - può ammettere che il potere, banalmente, origina da una perdita di autonomia: la progressiva perdita di forma e salute libera nell’ambiente sociale una delega che qualcuno dovrà pur raccogliere, sia esso lo sciamano, il capo, il prete o l’istituzione.
Nella storia delle nazioni nasce il concetto di popolo proprio quando il popolo stesso perde la sua autonomia, quando lascia il territorio e abbandona la provincia per la città e la fabbrica, l’individualismo di massa, le istituzioni di tutela, i bisogni e gli sfizi di un soggetto ipertrofico e insoddisfabile... Un popolo, insomma, che non riesce più ad immaginare alcuna ipotesi di giustizia sociale senza crescita economica. Ritrovare una forma significa dunque non solo tornare a coltivare la nostra complessità ed in essa le capacità di autonomia, ma anche la possibilità di ritirare la nostra personale delega di potere ed immaginare l’avvio di un realistico processo di decrescita che possa riassorbire la modernità e i suoi danni.
Un paradigma di forma può essere d’indirizzo alla politica, rappresentando una sfida più che onorevole per entrambi gli schieramenti: che la sinistra si occupi di contenere le istituzioni ai minimi termini; e che la destra si rivolga concretamente, una volta tanto, a riscoprire le reali condizioni di quella potenza che tanto rimpiange e che massima può esprimersi solo nella complessità e nella salute dell’individuo. Tutti sicuramente dobbiamo rivedere l’immagine che ci siamo fatti della nostra stessa specie: non individualista, non gregaria ma soltanto, banalmente, sociale. Solo così saremo forse capaci di svestire la politica dell’indebito onòre - che da sempre la rende preda ambita d’ogni arrivismo - per riconoscerne invece tutto il  pragmatico ònere, nell’inderogabile responsabilità che abbiamo da assumere nei confronti della specie.


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