Vorrei condividere con voi qualche riflessione sulla
situazione politica estrema che abbiamo vissuto. E se un giorno gli storici
indagheranno su quello che è successo sotto la copertura della pandemia,
risulterà, io credo, che la nostra società non aveva mai raggiunto un grado
così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e di disfacimento.
Ho usato a ragione questi tre termini, che sono oggi legati
in quello che si chiama un nodo borromeo, cioè un nodo in cui ciascun elemento
non può essere sciolto dagli altri due. E se, come alcuni non senza ragione
sostengono, la gravità di una situazione si misura dal numero di omicidi e
delle uccisioni, credo che anche questo indice risulterà molto più elevato di
quanto si è creduto o si finge di credere.
Prendendo in prestito da Lévi-Strauss un’espressione che lui
usava per l’Europa nella seconda guerra mondiale, io credo che si potrebbe dire
che la nostra società: “ha vomitato se stessa”. Per questo io penso che non vi
è oggi per la nostra società una via di uscita dalla situazione in cui è
caduta, a meno che qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in
questione.
Ma non è di questo che volevo parlarvi, mi preme oggi
piuttosto interrogarmi insieme a voi su quello che abbiamo fatto finora e su
quello che possiamo continuare a fare in una tale situazione. Io condivido
infatti pienamente le considerazioni contenute in un documento, che qualche
giorno fa è stato fatto circolare, quanto all’impossibilità di una
rappacificazione. Il fatto è che non abbiamo davanti a noi semplicemente degli
uomini che si sono ingannati, che hanno sbagliato o hanno professato per qualche ragione delle
opinioni erronee che noi potremmo cercare di correggere. Chi pensa questo si
illude: abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo
e del cittadino, per usare due termini famigliari alla nostra tradizione
politica. Si tratta in ogni caso di qualcosa che ha preso il posto di quella
coppia - l’uomo e il cittadino - e che
vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto
penale: il “complice”. A patto di precisare che si tratta di una figura molto
particolare di complicità, complicità per cosiddire assoluta nel senso che
cercherò ora di spiegare.
Nella terminologia del diritto penale il complice è colui
che ha posto in essere una condotta che di per sé non costituisce reato, ma che
contribuisce all’azione delittuosa di un altro soggetto: il reo.
Noi ci siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui,
anzi a un intera società che si è fatta complice di un delitto il cui reo è
assente o comunque, per essa, innominabile. Una situazione cioè paradossale in
cui vi sono solo complici ma il reo manca. Una situazione in cui tutti, dal
Presidente della Repubblica al semplice cittadino, dal Ministro delle salute al
semplice medico, tutti agiscono sempre come complici e mai come rei. Credo che
questa situazione ci può permettere di leggere in una prospettiva nuova il senso del punto a cui siamo: il contratto sociale ha assunto
cioè oggi la figura, vera estrema figura, di un “patto di complicità senza il
reo”, e questo reo assente coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla
stessa massa dei complici, e non è perciò altro che l’incarnazione di questo
generale “esser complici”, cioè “piegati assieme”.
Una società di complici è più oppressiva e soffocante di
qualsiasi dittatura, perché chi non partecipa delle complicità - il non
complice - è puramente e semplicemente escluso: non esiste, non ha più un luogo
nella città.
C’è però anche un altro senso in cui si può parlare oggi di
complicità ed è la complicità non tanto fra il cittadino e il sovrano, quanto
anche e piuttosto, fra l’uomo e il cittadino. Voi ricorderete che Hannah Arendt
ha mostrato quanto la relazione, così importante, fra questi due termini -
l’uomo e il cittadino - sia ambigua: nella dichiarazione dei diritti, lei ha
mostrato, in realtà in questione è l’iscrizione della nascita cioè della vita
biologica dell’individuo nell’ordine giuridico e politico dello stato-nazione
moderno. I diritti sono attribuiti all’uomo solo nella misura in cui questo è
il presupposto, immediatamente dileguante, del cittadino: l’uomo deve diventare
il cittadino, l’uomo esiste se diventa cittadino.
Ora l’emergere in pianta stabile nel nostro tempo (Arendt
usa la figura del “rifugiato”) dell’uomo come tale, cioè dell’uomo spogliato
del carattere di cittadino, è la spia di una crisi irreparabile in quella
finzione dell’identità fra l’uomo e il cittadino su cui si fondava la sovranità
dello stato moderno.
Quel che noi oggi abbiamo di fronte è una nuova
configurazione di questo rapporto: in cui l’uomo non trapassa più
immediatamente e dialetticamente nel cittadino ma stabilisce con questo, col
cittadino, una particolare relazione: nel senso che l’uomo, con la natività del
suo corpo, col suo corpo, fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno
per costituirsi politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice
della vita del corpo di cui assume cura.
Avrete capito che questa complicità di cui sto parlando è la
biopolitica: realtà che ha oggi raggiunto la sua estrema e speriamo ultima
configurazione.
Ecco allora che la domanda che volevo porvi è questa: in che
misura noi possiamo oggi ancora sentirci obbligati in questa società? E se,
come credo malgrado tutto, ci sentiamo in qualche modo ancora obbligati,
secondo quali modalità ed entro quali limiti possiamo rispondere a questa
obbligazione, e quindi parlare pubblicamente?
Non ho una risposta esauriente a questa domanda, posso
soltanto dirvi come il poeta, ricordate: codesto solo oggi posso dirvi quel che
non siamo, posso soltanto dirvi quel che so di non poter più fare. Ecco, quel
che io oggi non mi sento più di poter fare: io non posso più, di fronte a un
medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è stata usata in questi due
anni la medicina, ecco non posso non mettere innanzitutto in questione la
medicina stessa. Se non si ripensa daccapo a che cosa è progressivamente
diventata la medicina, e forse l’intera scienza di cui questa vuol far parte,
non si potrà in alcun modo sperare di arrestarne la corsa letale.
E ancora: io non posso più, di fronte ad un giurista o a
chiunque denunci il modo in cui il diritto e la costituzione sono stati
manipolati e traditi, ecco io non posso non rimettere in discussione la stessa
Costituzione e lo stesso diritto. E’ forse necessario, per non parlare del
presente, che vi ricordi che ne’ Mussolini ne’ Hitler ebbero il bisogno di
cambiare le costituzioni che vigevano in Italia e Germania, ma trovarono anzi in
esse i dispositivi di cui avevano bisogno per instaurare i loro regimi.
E’ possibile cioè che il gesto di chi cerca oggi di fondare
sulla Costituzione e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in
partenza. Se ho evocato questa mia duplice impossibilità non è infatti in nome
di vaghi principi metastorici o filosofici, ma al contrario come la conseguenza
inaggirabile di un’analisi della situazione storica. Dobbiamo analizzare bene
la situazione storica in cui ci troviamo. E’ come se certe procedure o certi
principi in cui si credeva o piuttosto si fingeva di credere, avessero ora
mostrato il loro vero volto che non possiamo omettere di guardare. (Sia chiaro
non intendo con questo svalutare o considerare inutile il lavoro critico che
abbiamo svolto e che certamente anche oggi, nella riunione odierna si
continuerà a svolgere di sicuro con rigore ed acutezza. Questo lavoro può
essere utile, ma solo tatticamente: sarebbe dar prova di cecità identificarlo
con una strategia a lungo termine).
In questa prospettiva resta molto ancora da fare e potrà
essere fatto solo lasciando cadere senza riserve concetti e verità che davamo
per scontati. Il lavoro che ci sta davanti può cominciare, secondo una bella
immagine di Anna Maria Ortese: solo là dove tutto è perduto, tutto perduto,
senza compromessi e senza nostalgie.
Giorgio Agamben: intervento all’incontro “Le faux sans
réplique” organizzato da Generazioni Future il 28/11/2022 a Torino
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