fondamentalismo della modernità

"Potremo esultare alla morte di dio
solo quando avremo un'alternativa all'individualismo."

mercoledì 29 agosto 2012

ILVA di Taranto




Dateci il lavoro, che è la dignità dell'uomo,
se poi muoiono i bambini...
ne faremo degli altri!



sabato 25 agosto 2012

Té bancha


Ho conosciuto il té bancha 16 anni fa: mi è stato presentato come l'unica bevanda che si potesse assumere costantemente senza produrre effetti collaterali.
In queste giornate eccezionalmente calde verifico quotidianamente la capacità dissetante di questo té senza teina: mezzo bicchiere caldo, un gusto leggermente tostato per una pausa in qualunque momento della giornata; dolcificato con un po' di malto a colazione; stuzzicante con una fettina di zenzero fresco... Il té bancha è la bevanda "ordinaria" (in giapponese bancha vuol dire comune) adatta per grandi e bambini.
Il bancha è un té verde che si trova in commercio nelle varietà hojicha (se fatto con foglie) e kukicha (solo rametti), queste come le altre varietà sono prodotte dalla stessa pianta, la camelia japonica, differendo solo l'epoca della raccolta, le parti della pianta o i metodi di lavorazione e fermentazione. Nel nostro caso la mancanza di teina è dovuta alla raccolta di rametti e foglie a fine stagione di piante di tre anni. In qualità di té verde è ricco di antiossidanti, favorisce la digestione, ha un'azione alcalinizzante ed è una buona fonte di ferro calcio e vitamina A. I rametti del kukicha hanno bisogno di un po' più di tempo in infusione oppure di scaldarsi assieme all'acqua, possono inoltre essere riusati per due o tre volte.



Alcune considerazioni sull'assunzione di liquidi:
L'indicazione medica di bere due litri e mezzo di acqua al giorno è una stupidaggine basata sul dimenticarsi il segnale naturale della sete (che normalmente dovrebbe essere funzionale) e sul travisare il problema della depurazione renale (evitare di assumere con l'alimentazione quelle pericolose concentrazioni di sostanze che i reni poi dovranno neutralizzare con tanta acqua), senza parlare di una diretta complicità con l'enorme businnes dell'acqua minerale.
Chi riesce ad organizzarsi un'alimentazione ragionevole s'accorge che il bisogno di liquidi diventa ben poca cosa se paragonato ai carrelli di bottiglie in uscita dal supermercato. Si perde l'abitudine di mettere i bicchieri in tavola, bastando due dita di tè o un caffé d'orzo dopo pranzo. Si perde l'abitudine compulsiva di aprire il frigo ogni cinque minuti per una golata d'acqua, anzi diviene sgradita anche solo l'idea di buttarsi in pancia un bicchiere di roba gelata...
Si ritrova dunque la sete come segnale-sintomo diretto (e praticamente immediato) dell'assunzione di cibi troppo pesanti, conditi o salati.
Come limite dobbiamo ammettere che il té non può essere considerato a "kilometro zero" perché, semplicemente, la camelia japonica non siamo ancora riusciti a farla crescere dalle nostre parti. E non trovando alcuna valida alternativa nostrana che sia fiore, bacca o erba di cui si possa fare lo stesso uso costante senza effetti collaterali, questo è un limite che per ora ci teniamo.


martedì 14 agosto 2012

Maschio e femmina


Un cucciolo gioca, un adulto interdice.
Il cucciolo si ferma, la serietà del tono lo blocca.
Il cucciolo non può sapere l'entità del pericolo, è un divieto acritico, ma lui lo fa suo, così come mangia ciò che gli si porge.
Il limite è interiorizzato, ora potrà fermarsi da solo rispondendo ad un comando interno, un protocollo che s'è dato e che seguirà d'ora in avanti, almeno fino a quando non si sentirà abbastanza sicuro da metterlo in discussione... Ma questa è un'altra storia.
Qui mi interessa notare come quel limite interiorizzato possa rappresentare l'origine fisiologica del simbolico. Un comando, dapprima reale e poi solo più rappresentato dentro di noi, che può incidere sulla nostra forma, sugli atteggiamenti e sulla personalità: in una certa misura, da adulti saremo quegli uomini e quelle donne che avremo avuto attorno crescendo.
Questa è la constatazione per cui alla cultura si può riconoscere un'accezione meno accademica e più apparentata alla natura: dalla fisiologica dipendenza infantile all'adulta indipendenza, ma nell'ordine di una forma prestabilita dalla trasmissione culturale. Così impariamo le strategie del nostro gruppo sociale e, prima ancora, radichiamo le nostre identità di donne e di uomini.



Ora, possiamo chiederci se, alla fine del percorso formativo, quella cultura che ha preso a darci forma sia ancora in grado di interfacciare con la base fisiologica del nostro corpo. La risposta, in merito alla forma individualista contemporanea, sembra essere no!
La critica al moderno individualismo può essere allargata fino ai termini originari di critica all'ordine simbolico vigente, da molti descritto come "patriarcale": un canone di maschilità di un certo tipo, che prevarica il principio femminile ed invade l'intero campo sociale infondendo ognidove il suo segno, tronfio sovente ma anche, all'occorrenza, ammantato di neutralità.
La qualifica di patriarcale e la sua descrizione sono frutto, a mio avviso, di una semplificazione che ha reso un pessimo servizio a tutti, arenando la critica femminista e mistificando l'origine storica della civiltà.
Mi sembra fuorviante ipotizzare un originario matriarcato poi sopraffatto dal principio maschile, così come mi sembra scorretto qualificare il maschile nei termini di gerarchia, competizione, conflittualità, astrattezza.
Alcuni dati mi sembrano confutare nettamente queste concezioni. Da un lato, se indaghiamo le basi fisiologiche, il maschile sembra contrassegnato piuttosto dalla pluralità della truppa che dalla singolarità del capo: gli spermatozoi non "corrono per arrivare primi" bensì collaborano, avanzano come un flusso collettivo e chi non ha abbastanza vitalità non "soccombe" ma semplicemente cede il suo materiale ai vicini, tanto che se il numero di essi è troppo esiguo lo sperma che li veicola non riesce ad essere fecondo. Questa è un'evidenza empirica che, almeno in ambiente scientifico, ha ormai soppiantato il precedente stereotipo.
Parlando poi di stereotipi cade anche l'idea di una certa "amorevolezza" femminile: questo risulta evidente a tutti quelli che frequentano aggregazioni femminili, ma è anche ciò che emerge da un'analisi dei dati sulle violenze domestiche, dove le donne non sono da meno dei loro consorti dimostrando piuttosto un'aggressività incontrollata e maggiormente lesiva (The Anti-Feminist Online Journal).
Ecco dunque il sospetto che, non casualmente, l'ordine simbolico vigente inverta i ruoli, prescrivendo a ciascuno uno stereotipo mutuato dalla base fisiologica dell'altro.
Potremo allora permetterci di guardare con disincanto i nostri corpi e i nostri sessi? Potremo forse stupirci di un maschile di per sé socievole, collaborativo, vitale prima che razionale, coinvolgibile nell'entusiasmo per un obiettivo comune e gerarchico solo all'occorrenza, una virilità che si afferma per il realismo sui propri limiti ed un farsi adulti che limita l'ambito della competizione al confronto generazionale, così fornendo all'intero gruppo quella spinta aggiuntiva che rappresenta lo slancio vitale di ogni forma biologica?
Per questo maschile l'idea di un ordine simbolico è appunto solo astrazione, il rischio di una virilità incerta, la paura di un confronto troppo rimandato. Il maschile sottostà ad un ordine simbolico solo per debolezza, per forma incompiuta. L'edipo non è destino ma solo un incidente!
E' il femminile piuttosto, che dimostra una tensione perenne alla gerarchia, la singolarità dell'ovulo è frutto dell'espulsione di tre altre potenziali individualità (i nuclei polari durante la gametogenesi), ogni donna rappresenta nel gruppo un fattore parcellizzante nel tentativo di drenare risorse dalla sua parte, le condizioni del suo utero sono la sua priorità. Le donne non sono socievoli, patiscono i pettegolezzi, litigano e volentieri si feriscono alle spalle, ma ciononostante un meccanismo fisiologico indica precisamente un destino comune: un qualunque aggregato femminile in poco tempo sincronizza il ciclo mestruale, la comunicazione ormonale vince la dispersione e costringe a trovare delle forme di convivenza.
Ecco allora le basi fisiologiche dell'ordine simbolico della madre: il corpo femminile è sempre mutevole ma prevede anche dei meccanismi per tenere assieme, per fare corpo unico. Una donna crescendo può passare dalla condizione di figlia a quella di madre, e questa ambivalenza è sempre rivisitata, ad ogni ciclo, ad ogni gravidanza. Forse che una leader del gruppo femminile, una donna con più esperienza o magari già in menopausa, non possa servire ed essere cercata proprio per fornire un elemento di continuità, per dare una testa a quel corpo unico?
Una fertilità sincrona da coordinare, l'autocontrollo demografico da gestire in accordo con un gruppo maschile già di per sé coeso ed attivo sul fronte delle risorse, per un complessivo ed armonico inserimento della specie nell'equilibrio ambientale.
Il gruppo di genere è ciò che può dar ragione al desiderio omosessuale, il quale a sua volta non può che rappresentare il limite dell'esperienza di genere: è difficile immaginare un'intimità più che sessuale, ed il desiderio e la disponibilità a quell'intimità sono indispensabili per dare un'articolazione interna ai sessi che dia spazio alla complessità.
Il gruppo di genere è un'assunzione di responsabilità, è il riferimento essenziale di un'adultità complessa che voglia interrompere il circolo vizioso della riproduzione dell'individualismo: tutti dovrebbero potersi sentire genitori ma nessuno dovrebbe poter pensare di rappresentare il tutto per un cucciolo.
Insomma, le nostre identità sessuali non possono che spendersi in forma plurale e associata, ma questi gruppi, per evitare la complicità, devono rispettare la fondamentale asimmetria che gli è costitutiva.
E' bene dunque che l'ordine simbolico torni alla madre parché, in realtà, non è dell'uomo. Agli uomini è sufficiente quest'ammissione, l'ordine simbolico non ci appartiene e se vi cadiamo è solo per debolezza. Mentre le donne, per togliersi dalla complicità "patriarcale", hanno la responsabilità di riportare il loro ordine simbolico ad applicarsi al dato concreto, demografico, ambientale. Altrimenti ecco che il simbolico travalica i propri argini e diventa la matrice per le tante e perniciose tecnologie che la storia ci ha mostrato.
L'ordine simbolico in sostanza, tirato giù dal suo piedistallo, non è poi quella gran cosa che ci debba spaventare. Per gli uni è solo un meccanismo di ripiego, la sgradevole sensazione dei nostri sensi di colpa, il rimosso della nostra inadeguatezza; per le altre è il teatro dove inscenare la quotidiana rappresentazione della propria mutevolezza; per entrambi può essere la misura di un ragionevole riferimento biologico ed ambientale...
E non è difficile immaginare la proposta di un'orizzonte simbolico da tutti condivisibile: piantate un albero che possa diventare secolare al centro del vostro villaggio, e abbiatene cura!

sabato 11 agosto 2012

Dizionario olimpionico


L'Olimpo, il monte dove vivono gli dei. Le olimpiadi come forma religiosa laica?
Considerando l'interesse generato da questo evento, trasversale a ceti e schieramenti politici, si direbbe di sì. Ma sport e religione cosa possono avere in comune?
La prima cosa che mi viene da pensare è che le persone veramente interessate alla religione difficilmente sono interessate allo sport. Non ho pezze d'appoggio a sostegno di questa tesi ma mi viene difficile immaginare qualcuno che esce da messa per fiondarsi ad urlare allo stadio.
Eppure le chiese cattoliche, fino a poco tempo fa, si dotavano tutte di campo da calcio: l'oratorio! Non c'era magari un campionato dove il San Luigi sfidava il San Bernardo, ma comunque un po' di corse dietro al pallone erano proposte come sfogo a chi si era sopportato il catechismo. Può servire a comprendere il fenomeno l'attenzione dedicata dai salesiani, ordine religioso con fini di educazione della gioventù. I salesiani, letto Freud, si sono appropriati di un concetto scientifico di "pulsione"... che cercano di contenere incentivando appunto l'attività sportiva.



Le olimpiadi ci sono ogni cinque anni, ma lo sport conquista nel sociale sempre più spazio. Destra e sinistra condividono la concezione dello sport come formativo dell'adolescente, ed il "portare" il figlio alle infinite attività sportive è ormai il sigillo dell'attività genitoriale per tutti. Penso che, in fondo, sia passata la concezione dei salesiani: il gruppo di adolescenti, indolenti e promisqui nelle loro esperienze, è considerato pericoloso, il corpo non è da condividere socialmente ma da addestrare individualmente!
Se lo sport gestisce il corpo dell'individualista, il tifo è un fenomeno mentale. Condivide col religioso la capacità di "religere", di tenere assieme. Sport e religione condividono l'uso di un linguaggio retorico: un coro da stadio o una preghiera tradiscono la funzione del linguaggio, dal comunicare il nuovo al ripetere sempre lo stesso messaggio. Sport e religione condividono un piano di irrealtà: un dio o una squadra di calcio possono essere oggetto di una passione totale proprio perché non reale, due espressioni di un "amore puro" che tendenzialmente non si mischiano, anche muovendo le stesse leve.
Con "agonismo" possiamo identificare un fenomeno di simulazione, la simulazione della guerra. Ogni "genius loci" si sceglie la tecnica sportiva che più gli aggrada - alle olimpiadi sono tutte rappresentate - e poi... tutti contro tutti, la guerra!
Il termine di "prestazione" parla da solo: verificare chi ce l'ha più lungo! Paranoia prettamente umana: certo anche i cani si confrontano ma se volete, ripensando alle storie dei miei, posso presentarvi Teo che nella sua vita ha vinto tutte le sfide con Uto (è decisamente più grosso), ma non per questo ha mai preteso di fare il capo, riconoscendo in Uto una precisa vocazione ed una visione del mondo più larga della sua. Confronti che servono a tenere alto il livello del branco, non alla conquista del potere. Evidentemente il "primato" rappresenta per l'umana specie una particolare afflizione. Ma se è l'umano nella sua totalità a migliorare faticosamente i suoi primati, l'altro da sé, l'animale, proprio in quanto animale, non riesce probabilmente ad apprezzarci!
Ammetto di essere un po' noioso con tutti i miei post che finiscono allo stesso modo: spiegando le cause del problema evidenziato con una scelta tecnologica di individualismo, l'individualismo su cui si è posizionata la nostra specie da un po' di tempo... Ma che volete daltronde, è il blog della Civiltà del Fottere!

lunedì 6 agosto 2012

Alcool, le Ragioni del Farsi



<< Nel pallido chiarore del mattino vi invito a contemplare una distesa di rovine, il cervello di un alcolista: la sostanza grigia abrasa su vaste superfici corticali; crollata la sostanza bianca; smantellata la corteccia prefrontale, un tempo sede della conoscenza; la distruzione del cervelletto, che va ad aggravare  il disastro cognitivo e motorio che colpisce il cervello; l'ippocampo, dimora della memoria, trasformato in un amnesico campo incolto... >> (Jean-Didier Vincent, Viaggio straordinario al centro del cervello, Salani 2008, p.206)
Questa è la cruda descrizione  degli effetti dell'alcool fornita fornita da un neurologo francese (tra l'altro estimatore del vino!). Se non vi basta date un'occhiata alle enciclopedie divulgative mediche degli anni '70 e avrete descrizioni analoghe mentre, se guardate attualmente su internet, scoprirete tutti i miracolosi effetti positivi del bicchiere a pasto, tener lontano l'infarto etc.
Certo, potete dire che un consumo moderato... etc. etc. Purtroppo ad un uso moderato non può che corrispondere un moderato passar la carta vetrata sulla corteccia cerebrale!
E se a questo danno sommiamo le altre patologie (magari non legate direttamente all'alcool ma conseguenti all'indebolimento che questa intossicazione comporta) e il danno sociale dei 7000 caduti sulle strade italiane (circa la metà sarebbero conseguenza  della guida in stato di ebrezza), abbiamo un panorama complessivo.
Nel tentativo di comprendere un fenomeno così importante nella nostra vita vorrei evidenziare alcuni dati (e tra parentesi non sono una verginella scandalizzata, ma posso vantare un consumo al limite della dipendenza che si è protratto dai 16 ai 24 anni).



Come si inizia...
Dal sito www.famigliacristiana.it  Famiglia News presenta un'anteprima dei risultati di un'indagine dell'osservatorio permanente "Giovani e alcool" della Società Italiana di Medicina dell'adolescenza, condotta su un campione di duemila studenti della scuola media inferiore. La ricerca rivela che il primo incontro con l'alcool "è avvenuto in famiglia per il 58% dei ragazzi a cui si aggiunge un 14% con altri parenti, solo il 18% fa la prima esperienza con gli amici e l'8% non ha mai assunto alcool. Da questi dati possiamo evincere che, di quanti hanno sperimentato l'alcool, l'80% lo ha fatto in famiglia. Sono i dati non di una generica complicità, ma di una vera e propria induzione."

E come si finisce...
"L'alcolismo è la manifestazione più evidente di un equilibrio famigliare "disfunzionale" che provoca sofferenza in tutti i membri della famiglia. I comportamenti dei membri di una famiglia, dov'è presente un alcolista, sono contemporaneamente risposta e causa dell'abuso." (dal sito www.asl.milano.it)

Uso sociale
Per l'uso sociale dell'alcool non abbiamo bisogno di ricerche scientifiche. Il dato generale per la nostra specie è che il 60% dei maschi ed il 30 % delle femmine ne fanno uso. E' evidente a tutti l'uso della sostanza nella socializzazione dell'umano: con una bottiglia tra me e l'altro riesco a costruirmi una dimensione di intesa affettiva.

Alcool e fatica
L'uso di alcolici come compensazione della fatica: bere per ottundere il disagio fisico e mentale delle fatiche eccessive di certi lavori. L'Inghilterra della rivoluzione industriale che moltiplica per 15 il suo consumo di zucchero è un dato analogo. Il bottiglione di vino all'ombra, conforto della fienagione sotto il sole di agosto, potrebbe essere il simbolo di quest'uso, convertito oggi nel rito dell'aperitivo dopo la giornata di "sbattimento" del moderno urbanizzato.

Esperienze di cura
Nel 1952 il dott. Humphrey Osmond cura gli alcolisti dalla loro dipendenza con l'LSD. I risultati sembrano confermare le aspettative: più del 50% dei soggetti che lo sperimentano (una sola assunzione a basso dosaggio) traggono benefici durevoli ma, con la successiva messa al bando della sostanza, questi esperimenti vengono interrotti.
Al merito non ho esperienze personali ma qualche anno fa un conoscente più anziano di me, che aveva fatto esperienze con LSD, mi ha detto: "ho avuto allucinazioni più intense sotto l'effetto dell'eccesso di fatica fisica che con l'LSD. Ciò che mi ha sorpreso non sono stati i cambiamenti percettivi delle poche ore di effetto della sostanza, quanto uno stato mentale di "indifferenza affettiva" perdurante nei due o tre giorni successivi".
Forse in questo senso si può comprendere anche come alla particolare tolleranza riservata all'alcool corrisponda l'ostracismo riservato alla marijuana.

La collettività
Lo Stato, che ha come principale fonte di spesa l'organizzazione della sanità e dell'assistenza pubblica, ha anche, nelle tasse sull'alcool, una delle sue entrate più consistenti.

Tutte queste accezioni mi sembrano accomunate da una "convergenza fenomenologica", un minimo comun denominatore: l'affetto.
L'alcool è il "surrogato affettivo" previsto dalla nostra strutturazione sociale. 
Se lo scopo dell'introduzione di questa sostanza, nella cultura della nostra specie dai tempi del neolitico, è di surrogare l'affetto, si può capire come sia stata funzionale a tutte le strutturazioni rigide che storicamente abbiamo praticato: la monogamia, la famiglia, lo stato e, in definitiva, l'individualismo.
E' un uomo tecnologicamente più potente quello che, con la semplice introduzione di una sostanza, può irrigidire le sue strutture oppure aumentare la sopportazione della fatica. La moglie sa che l'alcool con gli amici è meno pericoloso della concorrenza femminile, per l'integrità del suo ruolo come marito, anche al prezzo di una certa riduzione di ormoni, lucidità ed efficienza. La famiglia tollera l'alcool pur di nascondere le carenze affettive tra i suoi membri. Ed infine lo Stato ha il ruolo schizofrenico di curare i danni... con tasse imposte proprio sulla causa di tanta patologia.
Se questa è la funzione dell'alcool - il morbido che permette al duro di esprimere la sua potenza (per rendere l'idea provate a vedere quanti km riesce a fare senz'olio la vostra automobile!) - allora diventa comprensibile l'uso precoce (bevo perché non ho più l'affetto che si dà ai bambini, e non ancora quello che si cerca di costruirsi da adulti, l'uso estremo di una bestia sociale che si sente "fuori dal branco") così come l'uso al femminile (coincidente con la nuova assunzione di ruoli carrieristi quanto, all'opposto, l'uso compensatorio che può farne la casalinga) ed anche una diversa espressione in contesti latini o anglosassoni (che può discendere dalla diversa importanza attribuita alla famiglia). Ma, quale che sia la strada, la finalità sembra sempre essere la necessità di reggere la rigidità dell'individualismo.
Tornando all'incipit di questo post, la descrizione del cervello di un alcolista da parte di un neurologo, sembrano confermare la valenza affettiva "due monoammine, la dopamina e la serotonina che conducono la danza in cui si lascia trascinare l'alcolico debuttante... L'alcool è noto per la sua azione di consolatore e di rimedio contro lo stress e l'ansia che si esercitano in un circuito incentrato sull'amigdala cerebrale". Certo la neurologia è scienza in rapida evoluzione ma, che dopamina serotonina e amigdala rappresentino la tastiera di affetto e innamoramento, sono tutti ormai concordi.
Allora, cosa facciamo? L'etilometro della polizia stradale è già un freno, e quanto ci abbiamo messo a tirarlo! Ma una seria cura sociale di questo problema non può che passare attraverso il riesame complessivo delle strutture che lo generano, nella direzione di ricostruire una reale complessità di branco, dove il benessere e la completezza dell'individuo siano considerate il valore primario.

sabato 28 luglio 2012

Intelligenza vegetale




"Che cos'è questa pianta?" chiedo al mio compagno che sta togliendo erba nell'orto, 
alza gli occhi e dice prontamente "nocciolo!"
Non può sbagliarsi, ne ha piantati una ventina qui da noi (scelta sbagliata, su questi
terreni producono nocciole che non sanno di nocciola) e ne ha affettati centinaia 
di selvatici (stavano soffocando il bosco). E invece si sbaglia, gli dico di 
guardare meglio: ha le spine, è un rovo che "fa il nocciolo".
Questa è la prima delle osservazioni. In seguito, avendo usato nell'orto della
terra contenente radici di rovo, ne spuntano qua e là. Allora rintracciamo il rovo 
che "fa la carota" (cresce alto come le carote, ne imita il colore e pieghetta le 
foglie), e quello in mezzo ai pomodori (che cresce alto come i pomodori ed 
evidenzia i getti ascellari come fanno loro).
Evidenti doti di mimetismo, ma come fa il rovo a "conoscere" la forma della carota
o del pomodoro? Possiamo solo immaginare che ne "annusi" la chimica, e che questa  
chimica si riferisca anche ad un repertorio di forme, repertorio a cui apparteniamo 
tutti. Dobbiamo ipotizzare la capacità di scegliere l'altezza: il rovo in mezzo al 
prato dove pascolano le capre non supera i 20-30 cm dell'erba; un esemplare record 
si è infilato in un castagno e spunta in alto a più di 7 mt.
Il rovo è l'incubo del nostro insediamento (incubo già registrato nella bibbia)
e predilige terreni già coltivati in passato (tendenzialmente proprio quelli che si 
compera il nuovo insediato!). La sua radice è resistente al fuoco e più lo tagli 
più cresce; ma si esaurisce da solo ed il suo ciclo dura 6-7 anni.
Eliminarlo è un lavoro ingrato ed i primi anni la sua presenza sui nostri terreni
era così pervasiva che sul tavolo in cucina c'è ancora l'ago che ci è servito 
quotidianamente a togliere le sue spine, di dimensioni insignificanti ma in grado 
di dare un vero e proprio tormento.
Se possibile non si combatte, lo si lascia sfogare riconoscendogli, nel "corpo
vegetale", la funzione che nel nostro corpo svolgono le piastrine: cicatrizzare le 
ferite.
Da noi, qualunque taglio del bosco produce un focolaio di rovi che chiudono per
primi la ferita della terra, di fatto preparando il sottofondo che permetterà la 
nascita di una varietà più complessa.
Ma il rovo non solo è intelligente, ha anche evidenti comportamenti collettivi,
di squadra, quando ad esempio cerca di chiudere una strada. Quelli di destra vanno a 
sinistra e quelli di sinistra vanno a destra, alla faccia di quello che hanno 
attorno e alla posizione del sole. Fa rabbia, se sei quello che cerca di tener 
pulita la strada, vedere i loro rami esploratori protendersi gli uni verso gli 
altri nell'evidente intento di congiungersi nel mezzo...
Con gli anni abbiamo imparato a sfruttare questa intelligenza: piuttosto che
potarli con il faticoso decespugliatore (non serve, dopo la potatura ributtano più 
vigorosi di prima e sono capaci di farlo almeno tre se non quattro volte in 
un'estate!) ci limitiamo a bastonarne le cime con una qualunque bacchetta, tutte le 
volte che passiamo... ed è così bello vedere, dopo pochi giorni, che i nuovi getti 
hanno imparato la lezione e si dirigono dalla parte opposta!


Oggi vegetariani, vegani e affini stanno puntando al riconoscimento  dei diritti degli animali.
Evidentemente sta cambiando la percezione del mondo biologico, e le posizioni sono le più
disparate. Per fare un esempio molti biologi sostengono che i pesci non provano dolore
perché non hanno, a loro avviso, un apparato nervoso così complesso da consentire una
simile percezione.
I rovi sicuramente non hanno il sistema nervoso ma sembrano ciononostante esprimere
comportamenti intelligenti. Forse che la categoria biologica di "intelligenza" viene prima
del nostro modo animale di esprimerla con un sistema nervoso?

sabato 21 luglio 2012

Battisti e De Gregori


E' giovedì sera. Radio Capital trasmette un'ora intera di Lucio Battisti, con tanto
di commento cultural-agiografico.
Mi chiedo come mai la sinistra non si poteva permettere Battisti. Come mai era
considerato di destra e quelli di sinistra non lo ascoltavano in pubblico, ma si 
imparavano le canzoni a memoria in privato?






Premetto che non sono un critico musicale (e Battisti mi è banalmente simpatico
perché, come Mina, si è nascosto, evitando quindi di dire troppe cazzate), mi 
sembra comunque evidente il suo talento e le capacità di sperimentazione ma, se 
andiamo a vedere che mondo si esprime con le sue canzoni, troviamo sempre e 
ossessivamente la coppia.
Il team Battisti-Mogol era di destra perché cantava un mondo perfettamente
individualista: il maschio che canta il suo amore. Ma allora, la sinistra che lo 
osteggiava aveva qualche alternativa da proporre a questa deriva individualista? La 
risposta è no!
Certo, a sinistra c'era il sentore che la vita e la sessualità non potessero
esaurirsi nel rapporto di coppia, che ci fosse qualche cosa di più, una valenza 
sociale, di condivisione, di "comunismo".
Ma se con la mente cerco un'alternativa a Battisti... ecco comparire De Gregori: i
suoi testi sono totalmente indecifrabili, sfido chiunque a trovare un senso ai 
versi di "Alice guarda i gatti". Certo, potete dire che sono semplicemente poetici, 
o forse futuristi... ma certamente non definiscono un altro amore possibile!
La fuga estetica di De Gregori o la chiusura su di sé di Battisti sono stati due
modi di svicolare dalla domanda scomoda: qual'è il mio rapporto con gli altri della 
mia specie?
Se sei un uomo non mi interessa tanto sapere come te la cavi con le donne, ma
piuttosto cosa hai deciso di farci con gli altri uomini. Se sei donna vorrei 
parlarti del femminismo, nel senso più evitato: vorrei chiederti cosa hai deciso di 
fare con le altre donne.

lunedì 16 luglio 2012

Terra viva

Sono un insediato recente: il canavese, la zona in cui mi sono trasferito, nemmeno se n’è accorto, ma abito al "Grangiun" da novembre del 2011, ed ho davanti a me quasi 2000 mq di terra pianeggiante ed argillosa da
utilizzare nel modo più ragionevole. Questa primavera, nell’intento di dotare la casa di un embrione d’orto, oltre a fare tesoro delle esperienze simili a me più vicine, sono incappato in una pubblicazione fresca di stampa: "Alle radici dell’agricoltura"  di Luigi Manenti e Cristina Sala. Gli autori, anch’essi piemontesi, sono titolari di un’azienda orticola che da trent’anni produce con i metodi dell’agricoltura biologica.



Il libro è costituito da tre parti: un’introduzione con una panoramica sull’agricoltura odierna, di cui presenta le principali problematiche tecniche, ecologiche ed economiche attuali; una seconda parte di descrizione per punti del metodo di coltura da loro adottato, preceduta da un capitolo sulla micorrizazione delle piante;
un’appendice scientifica di approfondimento.
Il punto fondante del “metodo Manenti” (che fa esplicito riferimento a Fukuoka) è la constatazione (suffragata dalle analisi chimico-biologiche) che l’equilibrio virtuoso che garantisce fertilità costante nel tempo e una produzione abbondante e di qualità, è mantenuto senza alcun apporto di sostanza organica, bensì favorendo l’accumulo di humus stabile nel suolo. Ed è proprio il reticolo di ife dei funghi a costituire la maggiore componente di biomassa del terreno. In particolare, a determinare abbondante produzione orticola
di qualità, buona resistenza alle fitopatologie e mantenimento di un’alta fertilità del suolo, concorrono in modo determinante i funghi micorrizici. Si tratta di un’ampia gamma di organismi aerobi che popolano in modo capillare il suolo, stabilendo una simbiosi (detta appunto micorriza) con la quasi totalità delle piante annuali e
perenni. I funghi in questione fissano i minerali presenti nel suolo in una forma facilmente assimilabile dai vegetali, i quali in cambio cedono zuccheri ai funghi. Il metodo adottato dagli autori è dunque volto a favorire l’instaurarsi del legame fungo-pianta, così comune negli ambienti selvatici - e viceversa compromesso sia
dall’agricoltura convenzionale a base composti chimici vari, sia da quella più “sostenibile” che adotta concimi ed ammendanti organici senza rispettare stratificazione del terreno ed equilibrio tra microrganismi aerobi ed anaerobi. L’argomentazione è chiara e convincente, e tra l’altro è una sorta di “convalida scientifica” all’agricoltura realizzata da Fukuoka nel secolo scorso: micorriziamo allora!
Ma torniamo al Grangiun. Mi ritrovo sotto i piedi la terra più comune in quest’area di piemonte (e chissà quanto diffusa altrove!). Al di sotto di un sottile strato di suolo “vivo” (10 cm circa), si trova una lama di argilla pressoché pura, trasportata dal vento quando l’uomo non c’era ancora ed accumulatasi in modo diseguale a formare spessori che qua e là arrivano anche a diversi metri. Davanti a casa mia ce n’è almeno tre metri (abbiamo sondato con la draga durante i lavori di ristrutturazione della casa). La vegetazione spontanea insediatasi negli anni dell’abbandono era costituita da acacie, rovi e caprifoglio (un rampicante invasivo). Con un terreno duro e pesante come l’argilla, che si inzuppa d’acqua durante le piogge e ne favorisce il ristagno, sono molto lontano dall’avere un ambiente colonizzabile dai funghi.
Forse, semplicemente un metodo del genere si va applicato laddove un terreno “da orto” (ovvero drenante, morbido e sciolto) è già presente, ancorchè impoverito , squilibrato o bisognoso di costane apporto
organico. Occorre fare diversi passi indietro e alterare la composizione stessa del terreno, per renderlo drenante ed areato quanto occorre allo sviluppo di vita aerobica (quella che interessa l’orticultore).
Vista la condizione pesante del terreno si è preferito non intervenire su di esso ma usarlo come semplice supporto di un orto rialzato, di per sé garanzia  di un buon futuro drenaggio.
Con il legname di scarto del cantiere, ritagli di assi di abete, pallet, segatura, interi travi marci del tetto... è stato creato un sottofondo di almeno 70-80 cm.


Ho avuto poi la fortuna di intercettare una camionata di terra limosa che ho sparso sul legname.



Successivamente ho realizzato prode con inserimento di un cordolo di letame di cavallo e terriccio superficiale del bosco, un misto di foglie scarze e rametti.
Certo, per ora sono solo 50 mq, ma che mi stanno dando risultati apprezzabili già al primo anno, in una stagione difficile, molto piovosa e con ritorni di freddo.
Molte cose sono da migliorare, ma mi è sembrato di veder confermate nella pratica le teorie presentate in questo libro. La terra del mio orto è ancora pesante, ma l'averlo rialzato dal piano di campagna gli ha permesso di superare il lungo periodo di pioggia e la presenza di legname marcescente interrato ha innescato, testimone la presenza di funghi, i meccanismi di micorrizzazione che sono l'oggetto dello studio preso in esame.
Se devo fare una critica a questo libro, ma è una critica ai manuali di orticoltura in genere, è di occuparsi dell'agricoltura solo da un certo punto in là.
Certo, chi capisce che la terra è un utero al quale affidiamo il seme non ha difficoltà a capire anche che su di un utero non è bello posare le ruote di un trattore, rivoltarlo ossessivamente con il motocoltivatore o zepparlo di chimica. Ma quello che ho davanti a casa non è un utero, o almeno non lo è ancora: è terra da mattoni!
Ho visto quest'anno i miei amici, che gestiscono questo blog, inserire trifoglio (varietà nana che si è rivelata tuttaltro che nana e che ha prodotto più danni che vantaggi: ricordatevi di chiedere non il trifoglio nano ma le varietà "nanissime") ma solo dopo un lavoro sull'argilla iniziato 8 anni fa con l'inserimento iniziale di grandi quantità di legno. Solo adesso la loro terra è "da orto" e possono permettersi di iniziare ad applicare le indicazioni scientifiche evidenziate in questo libro.

Ciao, Stefano

lunedì 9 luglio 2012

Umeboshi


Il calciatore dell'inter Nagatomo, noto per la sua resistenza fisica, dichiara candidamente il suo trucco:
la prugna umeboshi.



La stampa si precipita sulla notizia descrivendo questa strana prugna salata come se fosse una eccezionale novità. In realtà è presente da almeno 30 anni in migliaia di negozi più o meno bio che vendono prodotti macrobiotici.
Ma cos'è l'umeboshi e quali sono i suoi effetti sul nostro corpo?




<< Le umeboshi non sono delle prugne, ma una varietà di albicocche che crescono in Cina e Giappone anche allo stato selvaggio.
Mentre in Cina le umeboshi erano conosciute principalmente per le loro proprietà antipiretiche, astringenti e benefiche per lo stomaco ed erano limitate a scopi medici, in Giappone, oltre a questo, diventarono ingredienti della cucina tradizionale.
I frutti vengono raccolti a metà giugno, quando sono ancora verdi, poi essiccati al sole e messi sotto sale in grandi barili su cui vengono poggiati dei pesi. Il periodo di fermentazione varia da sei mesi a qualche anno. Vengono aggiunte anche foglie di shiso (Laminaria Purpurea), che danno alle umeboshi quel caratteristico colore rossiccio.
In cucina le umeboshi sono moto versatili: si possono fare salse e condimenti per insalate e verdure cotte, o come ingrediente in guarnizioni e salse per aggiungere un delizioso sapore a svariati piatti, rendendoli rinfrescanti e facilissimi da digerire.
Come rimedio viene tradizionalmente usato per problemi digestivi, per raffreddori, febbre o intestino in disordine e per tonificare il fegato.
Secondo l’antica medicina cinese, il maggior effetto delle umeboshi è quello di far scaricare o equilibrare gli eccessi di sostanze che danneggiano il fegato, i reni ed i polmoni (ad esempio muco e acidi, che creano le condizioni ideali per un’infezione batterica) oltre a innumerevoli altri problemi. La combinazione fra l’acidità dell’acido citrico e l’alcalinità del sale è la responsabile di questi benefici effetti.
Le umeboshi sono inoltre molto ricche di calcio, ferro e fosforo. Se consumate ogni giorno in quelle aree dove si è obbligati ad usare acqua contaminata organicamente, prevengono ogni possibile infezione o malattia del tratto intestinale ed aiutano la pulizia del fegato e dei reni. Le umeboshi sono il meraviglioso prodotto della saggezza pratica dell’uomo e della conoscenza del principio yin e yang. Se le consideriamo alla luce di questo principio, diventa più facile comprenderne il valore.
L’ ume fresca è un frutto molto acido (yin) e verde (yin). Il processo di preparazione dell’ umeboshi comporta l’esposizione al sole (yang), l’aggiunta di sale marino (yang), l’impiego della pressione (yang) e di tempi lunghi (yang).
In questo processo viene così a crearsi una forte combinazione di fattori molto yin e molto yang, che determina un prodotto dalle numerose applicazioni pratiche:
Consente di consumare dei fattori molto yang come il sale senza dover bere molta acqua in seguito. Infatti tali qualità yang così assorbite riescono a neutralizzare eventuali fattori molto yin presenti nel sangue, quali zucchero, alcoolici, tossine, ecc.
In virtù delle sue qualità molto yin, l’ umeboshi può curare anche sintomi yang. Un proverbio giapponese dice: “Se avete voglia di bere acqua, prendete un’umeboshi, e la vostra sete passerà”. Grazie alle sue qualità molto yin l’umeboshi fa andar via la sete. >>

tratto da   http://www.itado.org/seleziona2articoli.asp?id2=venticinque


A casa l'umeboshi, per nostra fortuna, negli ultimi dieci anni ha riassunto il mobiletto dei farmaci. Un bicchiere con due dita di tè kukicha (o anche solo un po' d'acqua calda) e un dosaggio da mezzo a un cucchiaino della nostra prugna (usiamo la pasta di umeboshi, che costa meno e funziona lo stesso), da  prendersi la sera prima di andare a dormire.
E' sorprendente l'effetto di trovarsi l'intestino in condizione basica per una notte intera! Le accezioni pratiche che determinano la scelta di "mandare giù" l'umeboshi (la sua combinazione acido-salato spesso non risulta gradevole, ma delle medicine non si sta a guardare il gusto!) sono:
- ho fumato troppo, ho mangiato troppo, mi sento sotto tono debole stanco, sta per venirmi un'influenza: riduco il cibo e prendo l'umeboshi
- ho fatto un grosso sforzo fisico oppure dovrò farlo domani andando a far legna: è l'uso di Nagatomo, perché l'umeboshi migliora il drenaggio dell'acido lattico dai muscoli
- in caso di disordini intestinali, colite o diarrea
- in caso di ferite da rimarginare
- dopo l'anestesia del dentista
- e ancora, su internet non mancano i rimandi all'uso di umeboshi per limitare gli effetti collaterali della chemioterapia
Non usiamo l'umeboshi in caso si sintomi di scarica già in corso, se l'influenza si sta già esprimendo non ci viene da interferire.
Se non la conoscete, sperimentatela su uno dei sintomi sopra indicati, ma l'uso dell'umeboshi, unito all'evitare i cibi di origine mammifera (vedi post Carne e fisiologia), può essere inserita anche in condizioni di salute come modo per migliorare il nostro stato di benessere.

sabato 7 luglio 2012

Casa in argilla cruda


















Casa in argilla cruda realizzata nel 2001 in provincia di Torino.
Per relazioni tecniche visitare il sito www.casediterra.it
per altre immagini della costruzione il sito www.altafinmoreno.it

mercoledì 27 giugno 2012

Falli e orti


I romani erano soliti esporre nei loro orti, a propiziarne la fertilità, falli di legno. I greci invece, con la stessa finalità, organizzavano processioni con statue di enormi falli di legno chiamate phallophorie.






Ma i mitologi sono concordi nell'attribuire al fallo un significato di potenza virile. Come mai allora queste culture l'hanno preso a simbolo di fertilità invece di un più consueto simbolo femminile? E' l'utero che è fertile e fin dalla preistoria la fertilità è stata rappresentata da statuette femminili con culi pingui e tette in soprannumero.
Proponiamo una soluzione a questo enigma che non si basa sugli studi classici e che non ha bisogno di scomodare Priapo e Dioniso.
Nella nostra esperienza di orticoltori ci siamo trovati nella necessità di correggere un terreno particolarmente argilloso. Fukuoka suggerisce il metodo di sotterrare legno, e noi l'abbiamo sperimentato prelevando dai boschi limitrofi legno marcescente raccolto a terra e sotterrandolo nelle prode. Il metodo ha dato ottimi risultati ed ha prodotto un effetto collaterale sorprendente: funghi ovunque e tra questi una quantità industriale di uno in particolare del genere Phallus (nel nostro caso la varietà Mutinus canino).



Forse sia i romani che i greci hanno adottato questo simbolo non tanto per stupida superstizione quanto per trasmettere un metodo di coltivazione. Un metodo che, con l'aumento di un consumo di carne e relativo allevamento, si è poi perso soppiantato dall'uso esclusivo del letame.
Attualmente anche noi, per la presenza in azienda di tre cavalli, abbiamo abbondanza di letame, ma continuiamo a sotterrare col letame qualunque tipo di  legname (escludendo ovviamente i materiali con colle e vernici) e di scarti della produzione di legna da ardere (ramaglia, cortecce e segatura).
Agli amici orticoltori, unica categoria che in quest'epoca ci sembra possa avere un portato rivoluzionario, suggeriamo di sperimentare questo metodo che arricchisce il terrano nei tempi lunghi, ma fornisce anche ottimi risultati sin dal primo raccolto.
Appendere un grande fallo di legno alla recinzione del nostro orto, in fondo, potrebbe essere un modo per segnalare un orto coltivato con un metodo ecologico che mette in sincronia l'orto con la pulizia del bosco, quindi l'alimentarsi col riscaldarsi... due fra le prime necessità fondamentali da soddisfare e forse anche tre, a pensarci bene...
Nelle esperienze pratiche, alimentazione o agricoltura, ci si può trovare nelle stesse condizioni di altre epoche storiche e contesti culturali: gli alberi non sono cambiati così tanto dai romani ai nostri giorni, la terra è la stessa e non ci stupisce quindi di aver riprodotto, usando elementi che non sono mutati, lo stesso fenomeno a distanza di due millenni.
Forse, la mitologia non è che il degrado di una reale conoscenza...

domenica 24 giugno 2012

Carne e fisiologia, le ricerche del dott. Varkj


"Mangiare prodotti animali di specie mammifere provoca fenomeni infiammatori"

"Ridurre il consumo di carne di mammiferi riduce il rischio di artrite reumatoride, 
asma e sclerosi multipla".



Se razionalità e ragionevolezza fossero tenute in debita considerazione, queste scritte
dovrebbero campeggiare su tutti gli alimenti con ingredienti di origine di animali mammiferi
(carne, latte e formaggi). Se non ci permettiamo questa sensatezza è solo perché alla salute,
nostra e dei nostri figli, anteponiamo dei motivi banalmente economici (chi produce carne
non può non mangiarla!) ed un'immaturità sessuale che ci fa privilegiare ciò che è gustoso
(vedi il post "Gusto e alimentazione").
Perché sostengo questo? Perché é proprio l'assetto individualistico di questa società, col suo
infantilismo e la sua esasperazione del gusto, che ha rimosso il dato empirico di queste
ricerche, ormai risalenti ai lontani anni '80.




il medico indiano Ajit Varki

<< Nel corso dei suoi studi Varki si accorge che il nostro sistema immune reagisce contro un certo acido sialico, si chiama acido N-glicolil neuraminico (Neu5Gc). «Che strano - pensa - acido sialico ce n' è sulla superficie di tutte le cellule di tutti i mammiferi e ha tantissime funzioni». Ma presto si rende conto che l' uomo fra tutti gli animali è l' unico a non avere Neu5Gc e non solo l' uomo di oggi. Anche gli ominidi di 900 mila anni fa erano senza Neu5Gc. Per saperlo Varki s' è messo a lavorare col paleontologo Juan Luis Arsuaga: hanno studiato ossa fossili prese a Atapuerca. A un certo punto dell' evoluzione insomma si è perso Neu5Gc: al suo posto gli uomini hanno un altro tipo di acido sialico, Neu5Ac. La differenza è molto piccola, solo un gruppo OH appiccicato ad uno dei due rami della molecola. Le scimmie come tutti gli altri mammiferi hanno Neu5Gc, e Varki si era messo in testa di voler capire perché. Neu5Ac (quello dell' uomo) è il precursore di Neu5Gc e c' è una proteina - enzima - che trasforma Neu5Ac in Neu5Gc. Ma il gene che serve alla sintesi di questa proteina nell' uomo è mutato, la corrispondente proteina non funziona e così non si forma Neu5Gc. Varki si stava convincendo che forse è proprio questa proteina appena diversa a far sì che l' uomo sia uomo e lo scimpanzé scimpanzé(...)
Ma c' è di più, l' uomo è diverso dalle scimmie anche per la suscettibilità a certe malattie del sistema immune: artrite reumatoide, asma o sclerosi multipla colpiscono solo l' uomo, mai le scimmie. Cosa c' entra con l' acido sialico? C' entra. L' uomo non ha Neu5Gc ma da secoli mangia prodotti animali pieni di Neu5Gc, carne e latte per esempio. Così nel nostro sangue si formano anticorpi anti Neu5Gc che determinano poi reazioni infiammatorie, ma anche le malattie del cuore e il cancro potrebbe avere quell' origine lì. Varki e Gagneux si sono precipitati in un supermercato, hanno preso agnello, maiale e manzo, pieni di Neu5Gc, e ne hanno mangiato quanto potevano. Nei giorni successivi si sono accorti che nel loro sangue cominciavano ad esserci anticorpi contro queste Neu5Gc che nel frattempo si incorporavano nelle membrane delle loro cellule. >>

http://archiviostorico.corriere.it/2008/settembre/06/Uomo_scimmia_proteina_sapiens__co_9_080906081.shtml



P.S.  Questo è un dato fisiologico, punto. Né più né meno della necessità che abbiamo della vitamina D:
se tratti bene un bambino ma lo privi del sole ti verrà rachitico... se lo tratti male ma gli dai ogni tanto una pastiglietta di vitamina D ti verrà magari imbecille ma non rachitico!
Siamo abituati a trattare il problema della carne e dei suoi derivati nella nostra alimentazione come una questione di etica ma questi dati non sono etici, sono banalmente fisiologici. Non è detto che nei prossimi anni potremo permetterci questi livelli di assistenza sanitaria, e forse la crisi avrà il merito di farci intensificare l'aspetto preventivo.


martedì 19 giugno 2012

Sull'affetto


Sovrappensiero consideravo le condizioni della cagna accucciata in cucina: patisce
il clima ed il suo precario stato di salute potrebbe risentirne, ma per il caldo di 
questa estate, purtroppo, non posso proprio farci niente. Che stupido che sono, 
pensavo, ad affezionarmi a qualcuno che sta per morire!
E in effetti è così. Mi hanno chiesto di tenere questa cagnetta venuta d'impaccio
in mezzo a un divorzio: a quindici anni è decisamente vecchia e cataratta e 
displasia dell'anca sono l'annuncio evidente di quel "parossismo" di malattie cui i 
cani sono soliti abbandonarsi dopo averci regalato anni di salute e vitalità.






L'affetto è gratuito, questo lo sanno tutti, ma c'è di più: l'affetto non si
sceglie e sorge spontaneo con chi c'è! E' la presenza reale, è la convivenza di 
fatto quella che conta, non quella voluta o desiderata.
E così dovrebbe accadere anche nel branco umano. Che problema c'è a riempire case,
cascine ed ecovillaggi di sorta? E' sufficiente lavorare  un po' fianco a fianco, 
condividere il cibo, scaldarsi allo stesso focolare... e l'affetto dovrebbe 
crescere inosservato ma inesorabile, complice il tempo passato assieme.
E invece no, tutti si dà per scontato che ciascuno pensi al suo interesse e nessuno
rischia la comunione dei beni laddove manchi l'intimità d'un rapporto famigliare. 
Tutti abbiamo in testa che l'affetto sia una cosa speciale, da spendersi con una 
precisa persona in un rapporto d'elezione...
Ma per quella strada non si va da nessuna parte, è quella che conosciamo già e
porta all'individualismo e alle sue strutture tradizionali. Non c'è ecologia  e non 
c'è rinnovamento sociale per quella strada, e non pensiate che basti sforzarsi un 
po' per amare il prossimo... per favore, la strada dell'amor cristiano ha già dato 
bella mostra di sé.
No, il punto è che l'affetto è questione di salute e che la salute è dunque il solo
collante sociale di una possibile alternativa al vivere moderno. Ma questo, 
ovviamente, a patto di non voler chiudere sbrigativamente il discorso dichiarandosi 
sani e accoppiati: l'amare "solo" una persona non è sintomo di grande salute, e 
spesso si struttura in forme che di fatto ci escludono a priori dal resto del 
mondo.
Usiamo l'affetto come indicatore del nostro stato di salute. Quanto affetto sono in
grado di esprimere? Quante persone sono in grado di considerare affettivamente?
Queste sono le domande reali che possiamo farci. Non abbiamo bisogno di alcuna
morale quando già abbiamo un corpo che ha tutta la voglia di dirci come sta. 
Ascoltiamolo, forse la salute può ancora stupirci dimostrandosi un po' più in là 
dell'immagine che ci siamo fatti di noi stessi.

giovedì 14 giugno 2012

Olio Santo!


La generazione del dopoguerra divideva il cibo in leggero e pesante. Donne e
bambini mangiavano "leggero", mentre al maschio lavoratore era riservata la parte
ricca, gustosa e quindi "pesante" del desco. Il mangiar "leggero" era anche la
cura, la minestrina del malato. Erano criteri minimi e poco scientifici.
Ora invece, che abbiamo saldi principi scientifici, praticamente tutto ciò che
produciamo deve fare bene. E la scienza si impegna, volenterosa, fino a trovare in
qualunque cosa una qualche sostanza che "fa bene", ed essendo qualunque cosa
composita di innumerevoli sostanze... una che può avere un qualche effetto
positivo, di per sé, ci sarà sempre!
Ecco allora il bicchiere di vino che protegge il cuore, il cioccolato che ci aiuta
coi suoi alcaloidi (buoni questi, mentre cattivi sono sempre quelli della
marjuana!), il formaggio che dà il calcio per le ossa, l'acqua minerale ormai
obbligatoria come una tassa... e finalmente l'olio, santo olio, cardine
dell'alimentazione mediterranea!
Nella triste realtà la massa corporea dell'italiano continua a crescere e si
comincia ad avere problemi con la nuova generazione di bambini obesi. Se
analizziamo i comportamenti degli italiani vediamo un consumo di grassi in costante
ascesa.



In molti arrivano alla conclusione dell'urgenza di ridurre il tenore di grassi, e
la scarsità dei risultati di questi sforzi è spesso da attribuire all'incapacità di
ridurre l'olio come condimento. L'olio contiene all'incirca il 90% di grassi, ed il
consumo procapite di 22 Kg all'anno, di cui la metà d'oliva, sembra uno scoglio
insuperabile per il nostro girovita.
Certo, l'olio è meno peggio del burro, ed ormai tutti sanno che deve essere di
qualità, extravergine e spremuto a freddo senza solventi, e che bisogna evitare
olii di colza o di palma... Ma poi si casca sulla quantità: quell'attimo col polso
girato sull'insalata finisce per fare i litri e l'olio, per sua natura, ha molta
voglia di scendere in fretta...
Ma qual'è la quantità di grassi ragionevole?
Dipende: per un inuit al polo nord è sicuramente molto, per i nostri climi e per il
nostro comodo stile di vita molto poco!

In questo post voglio illustrarvi un metodo di cottura in padella che fa il
possibile per mantenere il gusto senza usare la quantità.
Si tratta di saltare o ripassare in padella qualsiasi cosa: fette di polenta, un
riso bollito da saltare con le sue verdure, i resti di ieri da scaldare... è
perfetto per tofu e thempé che sono preparazioni già cotte che vanno solo
insaporite al momento.
Usiamo una padella d'acciaio. Fredda, la bagnamo e la scoliamo, rimarrà un velo
d'acqua che correggeremo con una presa di sale o, meglio ancora, un goccio di salsa
di soia. Questo serve a cambiare la tensione superficiale dell'acqua ed a far sì
che le poche gocce d'olio che vi faremo cadere si allarghino facilmente per tutto
il fondo. A questo punto mettiamo ciò che dobbiamo cucinare e cominciamo a
scaldare. In pochi minuti, quando l'acqua avrà finito di evaporare, quella minima
quantità d'olio ben distribuita comincerà a scaldare e darà il gusto del fritto.
Spegniamo e serviamo.
Come sempre con l'olio, anche in questo caso attenti a non andare oltre nel calore
e bruciarlo producendo sostanze pericolose per la salute. Nell'esempio vedete il
thempé, un panetto di soia gialla fermentata che, saltato in questa maniera, con
aglio e rosmarino, rappresenta un secondo decisamente gustoso.





Altri accorgimenti nell'uso dell'olio.
Un soffritto si può fare prima rosolando le verdure e poi aggiungendo le nostre
poche gocce d'olio. La padella d'acciaio asciutta deve essere ben calda e le
verdure devono tostare asciugandosi evitando che si ammollino nel loro umido. In
questo caso l'acceleratore consiste nella fiamma ed il freno nel salare, rimestare
e chiudere col coperchio. Regolatevi, le verdure dimenticate sul fuoco passano dal
dorato al rosso al bruno e al nero. Il nero è ovviamente da evitare mentre penso
che tra il dorato e il rosso si incrocino ancora gusto e salute. Quando la
tostatura è sufficiente spegnete e lasciate scendere un poco la temperatura perché
le gocce d'olio che aggiungerete non brucino ma distribuiscano la componente
"frittura" al vostro piatto.
Altro suggerimento per quanto riguarda l'insalata. Razionalmente non si può
considerare l'olio per un uso lubrificante. L'abilità nel condire l'insalata sta
nel valutare la sua delicatezza e decidere quando condirla rispetto al momento di
sedersi a tavola. Per usare meno condimento basta lasciarlo agire un po' di più.
Una nota ancora sugli ingredienti. Relativizzando l'olio si può riscoprire il gusto
originario dell'oliva, in tutte le varietà di cui è ricca l'italia.

P.S. Ricordate che una cucina senz'olio è anche una cucina senza detersivo, e che
lavare i piatti è dunque molto più comodo...

domenica 10 giugno 2012

Considerazioni sulle ferite


In quanto a forma, il mio compagno ci ha dato. Scivola su di una lamiera e cadendo
se la infila alla base del mignolo. Ci starebbero due punti e un'antitetanica, ma
non riesco a convincerlo all'ipotesi di un pronto soccorso. Non pago, il giorno
dopo mi dice "vado a far girare Opera..." (giovane cavalla dal pessimo carattere),
dopo cinque minuti me lo trovo in cucina con una gamba sul tavolo e sul polpaccio
il segno del calcio: qui ce ne starebbero quattro o cinque di punti, oltre alla
solita antitetanica, ma me lo tengo per me e vado a prendere i cerotti.
Dopo una pulizia della ferita lo vedo offrirla all'attenzione della piccola Titti,
cagnetta ereditata da un amico defunto che da un'anno vive da noi: la cagnetta
annusa ma non lecca.
Prima considerazione: i cani sono coscienti della necessità della coagulazione.
Nei giorni seguenti la stessa cagnetta si applicherà con impegno a leccare le
croste del mio compagno, con un trattamento quotidiano che dura diversi minuti. E
di tutto rispetto dal punto di vista infermieristico, dato che dopo pochi giorni,
una settimana al massimo, le ferite sono completamente rimarginate e non hanno
comportato alcun fenomeno di infiammazione.
Che storia ha la cura di una ferita?
Attualmente non è più un problema, non si muore per un taglietto ma è difficile
tenere a mente che gli antibiotici sono arrivati solo alla fine della seconda
guerra mondiale. Senza quelli era il protocollo medico inglese, lavare le ferite
con una soluzione di acqua e sale, che aveva dato i migliori risultati anche se
relativi: nella prima e seconda guerra mondiale l'uso di bombe che producono
un'infinità di schegge faceva strage per i tanti che morivano di setticemia in
conseguenza di ferite anche lievi.
Se un salto qualitativo sono dunque stati gli antibiotici nel 1945, per trovare il
precedente dobbiamo arrivare indietro fino al dott. Cesare Magati (1579-1647)
che per primo ha avuto il coraggio di contrastare la tradizione di Galeno. Tradizione
che ha origine quindi nel II sec.dc e che prescriveva un accurato protocollo teso a
"far suppurare la ferita"!
Sì, suppurare: infiammare, infettare e provocare versamento di pus, nel senso non
di far uscire quello che c'è ma di generarne di nuovo e abbondante.
Per cui per quattordici secoli ligia ai sacri insegnamenti galenici, la medicina
ufficiale si era prodigata nel cercare le migliori ricette per la suppurazione:
apertura e lavaggi quotidiani, pezzi di stoffa imbevuti di questo e quello da
infilare nella ferita...
Evidentemente per quattordici secoli era la medicina ufficiale da considerarsi la
prima causa di morte, perlomeno tra i ceti abbienti cui era riservata... Il
tentativo reiterato di procurarti una setticemia, unita alla consuetudine di
pesanti salassi, doveva rendere molto pericoloso l'incontro con un medico!
Tornando quindi al nostro dott. Magati sembra che una volta, curata
eccezionalmente una popolana ed avendola poi trovata dopo alcuni giorni
perfettamente guarita, si stupì. Non del suo intervento, perché la popolana non
aveva certo seguito le sue indicazioni ed aveva fatto di testa sua, ma della
pronta guarigione! Si era reso conto che la ferita si era risolta così bene solo e
proprio perché la paziente si era sottratta alle sue cure.
Così Magati elabora un protocollo di pulizia e rispetto dei tempi fisiologici
della cicatrizzazione, che pubblica nel libro "De rara medicatione vulnerum", e
che è ancora valido oggigiorno: "pulire la ferita, avvicinare il lembi e coprire
con un panno di lino ripiegato, stringere poco le bende e lasciare il bendaggio 5
giorni prima di sostituirlo, consentire quindi la naturale rimarginazione della
ferita..."
Sorprendente è come questo benefattore dell'umanità non abbia nessuna notorietà.
Mentre in ogni città c'è una via dedicata a Cadorna (noto psicopatico che con le
sue famose "undici spallate" ha mandato a morte centinaia di migliaia di giovani
italiani nella prima guerra mondiale), io sono riuscito a trovare solo un ospedale
intitolato al dottore e frate cappuccino Cesare Magati: a Scandiano, il suo paese
natale in provincia di Modena.
Quattordici secoli di ossequio ad una tradizione criminale! Come sembra difficile
per l'umano capire qualcosa di se stesso, eppure... sarebbe bastata l'osservazione
della cura che ha un cane per le sue ferite!

giovedì 7 giugno 2012

Case di paglia


Cara Natalie,

approfitto del blog di mio marito per alcune considerazioni sulle case di paglia
che, come tu sai, sono un argomento che mi provoca l'orticaria!
Ti ho promesso una consulenza sul tuo progetto di insediamento ma, vista
l'importanza che il farsi casa può avere per l'autonomia delle persone, mi sembra
interessante rendere pubbliche queste considerazioni. In ogni caso, felicitazioni
per aver ricevuto la licenza edilizia di una casa in paglia e terra cruda.
Premetto che non ho nulla contro la paglia, materiale che mi sembra, di per sé, un
ottimo coibente. Qui vorrei evidenziare alcuni limiti di una certa tipologia di
muratura in paglia.
In realtà le "case di paglia" sono costruite in paglia, legno e terra: la balla di
paglia come coibente, una struttura portante in legno e la finitura in terra cruda
all'esterno e all'interno. Essendo lo spessore del ballotto di paglia almeno 40 cm
e la finitura in terra cruda almeno 15 cm per parte, alla fine si ottengono muri da
circa 70 cm... ed uno dice: che bello! con un muro così coibentato mi scalderò con
niente.
E' vero, ma parziale, e la progettazione deve invece cercare di considerare la
totalità dei fattori. Te ne presento due di fattori che mi sembrano problematici -
lo spazio e la luce - comparando un muro da 70 con uno da 35 cm di spessore.



Come vedi dallo schema, dunque, lo spessore del muro comporta la perdita di un
terzo della superficie interna (e ricordo a tutti che la cubatura edilizia, per il
comune, è quella lorda delle misure esterne), e la necessità di raddoppiare la
superficie finestrata (il sole ti arriva, certo, ma dal fondo di una nicchia
profonda 70 cm). Esiste una norma che prescrive finestre per almeno 1/8 della
superficie dei locali e, se non si specifica nulla riguardo allo spessore dei muri,
è solo perché si dà inteso che tutti tendenzialmente cercano di snellire le pareti
appunto per non trovarsi i vani angusti e bui di certe vecchie costruzioni in
muratura "pesante".
In sostanza, mi sembra che la tipologia del "muro di paglia" sia frutto più di
certo sentimentalismo che di una reale pratica. E' una componente romantico-
fiabesca che non mi sembra ti si addica...

Quel che ti propongo è invece un tipo di muro che unisce i vantaggi
della terra colata con la capacità coibente della paglia.
Prendiamo la balla di paglia e tagliamo i cordini. Essendo pressata in senso
longitudinale, la balla si aprirà in falde che infileremo in un graticciato
costruito a salire inchiodando listelli orizzontali ai pilastrini in legno che
reggono il tetto, e che dovremo quindi concordare con gli ingenieri in quanto a
larghezza e frequenza. Poi si cassera fuori e dentro e si cola l'impasto di argilla
e segatura che andrà ad aderire al graticciato. Una volta scasserato il muro, da
fuori puoi fare un intonaco sottile, una glassa da mezzo centimetro di argilla
calce e sabbia in parti uguali, mentre da dentro sarà sufficiente spatolare il
materiale stesso prima che sia completamente asciutto per avere una finitura di
lusso, gradevole e salutare per gli effetti climatici della terra viva, e
decisamente comodo perché non ha bisogno di imbiancatura (per cancellare un segno
sul muro è sufficiente la spugnetta dei piatti, si bagna localmente e si riliscia).



Ancora una cosa. Tu sai cosa intendo per argilla e segatura "colati", cioè lo
sfruttare la capacità colloidale dell'argilla resa liquida che, unita alla segatura
(preferibile quella lunga di abete, e attenta alla produzione della falegnameria
dove la cerchi, per non riempirti la casa di formaldeide colle e laminati!),
costituisce il muro "leggero" ma tenace che a casa mia non ha mostrato cedimenti in
questi suoi primi 10 anni di vita.
In fin dei conti è vero che costruire un cassero sembra più costoso che
l'appiccicare argilla con le mani su balle di paglia, ma la struttura di legno che
deve reggere le balle di fatto è più complicata del tralicciato che qui ti ho
proposto. Altrettanto vale per la finitura che risulta pratica tecnicamente ed
esteticamente valida.

Ciao, Piero


P.S. Ho il massimo rispetto per gli sforzi fatti per realizzare questa casa di
paglia in autocostruzione, ciononostante casa tua cerchiamo di farla diversa!


domenica 3 giugno 2012

Miglio e autonomia


In molti si rendono conto che l'umano ha una forma e che è un vantaggio
assecondarla.
Dalla mia esperienza personale posso testimoniare che un cambio di alimentazione
avvenuto sedici anni fa, sostanzialmente la rinuncia al cibo animale e
l'introduzione di cereali integrali (attualmente a casa mia il cereale è sempre
centrale nella progettazione di un pasto), ha nettamente migliorato la mia
condizione di salute, di efficienza e di umore.
In questo post vorrei illustrare il metodo che abbiamo elaborato per il
trattamento del miglio, cereale che può essere centrale nell'alimentazione, come
lo è tuttora per vaste zone dell'africa e dell'india.
Anche in italia il miglio era il cereale più importante e garantiva l'autonomia di
interi villaggi che per esso non avevano bisogno del mulino e del forno, posti
evidenti dove una fila di sacchi di farina può essere contata e quindi tassata.
Questo avvenne invece quando il miglio fu soppiantato dal grano (farina... pane e
tasse) usato come strumento per la conversione dei pagani dall'instancabile
cristianità medievale che doveva riconquistarsi tutta l'europa, orfana dell'impero
romano. E poi di nuovo si ribadì con l'introduzione del mais quando, dalla
scoperta dell'america, questo giunse assieme  a quell'altra "semplificazione" che
è stata la patata. Il mais è molto più produttivo, anche del grano, ma le sue
caratteristiche organolettiche sono decisamente inferiori: a questo fatto si
aggiunga la sfarinatura, la cottura violenta e l'abitudine a mangiar solo
quello... ed ecco spiegata la diffusa pellagra tra i poveri.
Il miglio contiene lisina, l'unica sostanza in dotazione agli psichiatri della
prima metà del novecento che la usavano per calmare gli stati psicotici. La lisina
ha un effetto rasserenante ed il buon umore dei napoletani non viene certo
dall'acido pomodoro, ma è un residuo dei secoli precedenti quando l'intera zona
era una forte produttrice di questo cereale.
Il miglio rigenera e l'abbiamo usato con risultati eccezionali sui tre cagnetti
che abbiamo raccolto in questi anni, arrivati a casa nostra in condizioni fisiche
pietose: una settimana di polenta di miglio e vedi il pelo lucido! E' adatto
all'alimentazione dei bambini anche appena svezzati, ed è sorprendente vedere
quanto lo gradiscano. Ovviamente indicato per le persone ammalate, per gli anziani
e per quanti hanno problemi di masticazione.
La polenta che qui vi presento lo vede accoppiato con le lenticchie rosse
(decorticate hanno lo stesso tempo di cottura e sono più digeribili), come in uso
attualmente ad esempio tra i tanti egiziani poveri. E' da notare che l'accoppiata
tra cereale e legume, che fa il "piatto unico" di molte tradizioni (riso e azuki
alla giapponese, riso e fagioli neri per l'america centrale, orzo e piselli, farro
e ceci...), assomma e fornisce tutti gli aminoacidi essenziali, cioè pareggia la
pretesa "nobiltà" della carne.
Sulla storia dell'abbandono di questo cereale sarebbe interessante una ricerca, ma
in questo post sarei già lieto di fornire uno strumento utile per gente
interessata all'autonomia e alla salute.

Ricetta:

Il limite del miglio è che se cucinato da solo risulta facilmente stopposo, anche
per questo è utile cominciare a conoscerlo con le lenticchie rosse. Come
indicazione generale il cereale può anche risultare al dente mentre è essenziale
che il legume sia ben cotto, disfatto, per renderlo più digeribile. Il miglio lo
trovate nei negozi bio, le lenticchie rosse decorticate anche in qualche discount
alla metà del prezzo. Risultato: circa 30 centesimi a porzione!











Mettete in pentola miglio e lenticchie in parti eguali, sciacquate e coprite con
altrettanta acqua (2,1 lt per 1 kg di granaglia), salate e mettete a fuoco rapido
(tanto finchè c'è acqua non rischia di attaccare).
Dopo una decina di minuti abbassate la fiamma e cominciate a girare, farà
probabilmente la crosta in fondo come ogni polenta che si rispetti: tranquilli,
viene solo più soda e gustosa, e la pentola lasciatela poi a mollo che la crosta
si staccherà da sola.
Verificate la cottura (dopo una mezz'ora le lenticchie disfatte non dovrebbero più
vedersi) e girate la polenta su di un tagliere di legno.
La prima volta si mangia calda accompagnata da qualcosa di un po' gustoso, quel
che resta ripassatelo poi in padella con aromi tipo aglio e rosmarino.